Cécile de France, l’illusione del corsetto

Mettiamola così: non è un caso che abbia appena finito le riprese di un film in cui la protagonista vive in Bretagna e fa la pescatrice. I suoi occhi corrono veloci lungo il perimetro delle pareti della stanza in cui ci incontriamo. Dopo un’attenta analisi, mi dice che l’orto che coltiva con i suoi figli è grande più o meno uguale: cinquanta metri quadrati. E Lino e Joy – avuti con il marito Guillaume Siron, cantante e compositore del gruppo Starbilux – non vogliono più mangiare nemmeno un pomodoro uscito da un supermercato. 

Poi Cécile de France, 46 anni, passa ai racconti che ti aspetteresti dall’attrice belga più desiderata dal cinema internazionale, anche italiano (vedere alla voce Paolo Sorrentino, che l’ha voluta nella serie The New Pope). «Arrivavo da un piccolo villaggio, mi sono ritrovata in una scuola statale di Parigi, da sola, e la cosa non mi è piaciuta per niente», ricorda; poi due frasi che riassumono gli anni della sua educazione: «Portavo i capelli rosso fuoco» e «facevo la ragazza alla pari per mantenermi». È dotata di una grinta che l’ha sempre spinta ad andare avanti, anche dopo che Clint Eastwood l’ha scelta per il suo Hereafter (2010) regalandole una fama di proporzione internazionale. 

Ora la possiamo vedere in Illusioni perdute, di Xavier Giannoli, adattamento dell’omonimo romanzo di Honoré de Balzac, al cinema dal 23 dicembre in alcune città italiane e dal 30 nelle sale di tutta la penisola. «Louise è una nobile che ama e protegge un giovane e promettente scrittore, e all’inizio mi ha molto confusa», racconta, «perché sulle pagine di quel classico dell’Ottocento era cinica, non aveva né cuore né anima ed era quindi molto difficile da amare. Ma il regista l’ha trasformata: per il film l’ha resa sentimentale, drammatica, piena di passione e di sensualità. Molto più interessante da interpretare».

Però Louise è molto diversa dalle figure di donne indipendenti e libere a cui ci aveva abituati.
«È il contrario. Louise dipende da tutti, prima dal marito, poi dal giudice e soprattutto dalle regole sociali che non tollerano che una nobile ami un giovane di origini umili. Ma possiamo comprenderla, rinuncia all’amore solo per motivi di sopravvivenza».

Come fa ad azzerare tutto e a pensare con la testa di una donna di duecento anni fa?
«Mi lascio “portare” dall’abito: il corsetto non fa respirare, e infatti le donne dell’epoca non respiravano. E questo le fa ragionare di conseguenza».

Indossare il corsetto tutti i giorni l’ha aiutata a ricordare il percorso di emancipazione compiuto dalle donne fino a oggi?
«Penso spesso a chi si è battuta per noi, a quanto noi dobbiamo ai sacrifici di autentiche eroine. Ma non è finita, ci sono ancora Paesi in cui i padri scelgono i mariti per le loro figlie».

Indimenticabile il suo ruolo – un vero cult – di una donna che va a lavorare in fabbrica, ha un capo che cerca di violentarla e lui finisce a pezzettini e inscatolato come la sua azienda fa con il tonno… 
«Ribelli, a cui si riferisce, mi aveva molto divertita. Mi piacciono le figure forti, alla Quentin Tarantino, donne che non hanno bisogno degli uomini per decidere che cosa ne sarà della loro vita. Preferisco chi agisce e non teme di fare errori, se necessario, piuttosto che diventare una vittima».

Del resto appartiene alla generazione cresciuta con Thelma & Louise: ricorda l’impatto che ha avuto su di lei quella storia?
«Molto bene. All’epoca ero una teenager, e quelle donne libere che prendono in mano il loro destino aveva cambiato il mio punto di vista. Soprattutto aveva azzerato alcuni pregiudizi in merito».

La lotta per la parità tra i generi sta trasformando davvero la condizione femminile?
«Assolutamente sì. Due anni fa per la prima volta mi hanno pagata come il mio collega, prima sarebbe stato impensabile. Non ho mai lottato in prima persona per la parità, ma sono molto riconoscente alle donne che lo hanno fatto e continuano a farlo».

È una donna contemporanea, una madre che lavora: il suo motto?
«Non stare mai più di quattro mesi all’anno lontana da casa. E anche se per lavoro mi trovo su un set all’estero, cerco di vedere i ragazzi tutti i weekend».

A casa, invece, ha un luogo tutto per sé in cui nessuno può entrare? 
«Ho una stanza speciale che chiamo “il mio studio”. Mi chiudo dentro e quando sono lì tutti sanno che è come se non esistessi. Entro nella mia caverna, è il luogo in cui imparo e in cui mi preparo».

Crede in Dio?
«Non nel senso di un unico creatore: credo nell’invisibile. La mia fede è più una riflessione filosofica sullo spirito della natura e sul cordone ombelicale che ci legava a lei e che abbiamo tagliato».

I suoi figli cambieranno il mondo?
 «Sono ottimista: credo di sì, anche se c’è chi dice che è troppo tardi. Cerco di fare del mio meglio. Viviamo in campagna, un’ora a nord di Parigi, e ogni giorno insegno ai miei ragazzi a farsi coinvolgere dalla bellezza della natura, a rispettarla e a proteggerla. Comunque vada, saranno degli adulti diversi da come lo siamo stati noi».

Non da lei, che ha il suo orto e che ha appena girato un film in cui fa la pescatrice…
«La Passagère, un film girato con un budget minuscolo, in Bretagna, con una regista francese esordiente, Héloïse Pelloquet. Posso dirle che sono una marinaia che pesca aragoste e crostacei, ma non di più: non ho ancora pensato al giusto modo di presentare questa donna al mondo…».

VanityFair.it

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