Lucia Sardo, a teatro con la strage di Orlando: «Che cosa ci rende umani?»

L’attrice, che ha da poco finito di girare il film «Picciridda» di Catena Fiorello, è a teatro con «La rondine», uno spettacolo ispirato alla strage di Orlando. E dice: «Dobbiamo creare un nuovo tabù: quello del cinismo»

Lei e lui. Entrambi hanno perso una persona che amavano, vittima di un attentato terroristico. Nel tentativo di superare il dolore, scopriranno di avere in comune molto più di ciò che immaginavano. Lo spettacolo (fino al 24 marzo allo Stabile di Trieste, poi a Brescia, Palermo e quindi Catania) s’intitola La rondine e lo spagnolo Guillem Clua lo ha scritto pensando alla strage di Orlando, in cui il 26 giugno 2016 un terrorista islamico uccise 49 persone. Nei panni del giovane Matteo recita Luigi Tabita.

In quelli di Marta, la donna che ha perso il figlio, c’è Lucia Sardo, 66 anni, molto orgogliosa di interpretare una parte che in Spagna (lo spettacolo ha diversi allestimenti in tutta Europa) fa l’almodovariana Carmen Maura.

Chi è la sua Marta?
«Una maestra di canto, che ha bisogno di tempo per assimilare la morte del figlio e per capire chi era davvero lui, anche attraverso l’incontro e scontro con Matteo. Ma il figlio è morto, e lei vive insieme la nostalgia e la rabbia di non potergli più porre domande, non poter più sapere, comunicare».
Un personaggio doloroso.
«Marta si chiede: che cosa ci rende umani, diversi rispetto alle belve che hanno ucciso mio figlio? Non l’amore, perché quello lo provano anche i terroristi. La differenza è nel dolore. Nella consapevolezza che noi facciamo tutti parte di una stessa razza umana. Io insegno drammaturgia ai ragazzi. E racconto loro la favola africana dei quattro occhi: normalmente ne abbiamo solo due per vedere, ma quando si riesce ad averne quattro, allora vedi il dolore degli altri».
Che cos’altro insegna ai suoi ragazzi?
«Che dobbiamo creare un nuovo tabù: quello del cinismo. Viviamo in una società che cresce sul sarcasmo, sulla derisione dell’altro, bisogna smetterla di atteggiarci così».
Lei come attrice, di cinema e di teatro, di parti impegnative ne ha interpretate parecchie.
«Fin dal primo film che ho fatto, La discesa di Aclà a Floristella di Aurelio Grimaldi, dove ero la madre di un ragazzino spedito in una solfatara e piangevo, piangevo… Da allora, quando per un film avevano bisogno di una donna che piangesse chiamavano me».
Lei è stata anche la madre di Peppino Impastato nei Cento passi.
«Quella donna era la reietta del paese, grazie al film la sua casa da quel momento si è riempita di ragazzi: come diceva lei, aveva perso un figlio ma tanti altri ne arrivavano. Io volevo rappresentare questo modello di una donna forte nella sua normalità. E da anni porto in giro una spettacolo dedicato a lei, Felicia: La madre dei ragazzi. Alla fine, spesso le storie che interpreto sono sì dolorose ma hanno anche un finale di speranza, grazie alla resilienza delle donne».
Lieto fine sì, ma storie sempre impegnative.
«Il teatro per me ha una funzione catartica, deve comunicare qualcosa. Ho scritto un testo, La nave delle spose, che racconta le donne che un tempo migravano oltreoceano per sposarsi. Quasi una tratta delle bianche, ma c’era anche chi alla fine si salvava».
Altri impegni?
«Ho da poco finito di girare Picciridda di Paolo Licata, dal libro di Catena Fiorello, un film dove siamo io e una mia nipotina e si parla di violenza sulle donne. L’attore assume su se stesso il dolore degli altri, però almeno questa volta non ho un figlio che viene ucciso».
Lei nella vita ha figli?
«Uno solo, di 28 anni. Ci sono diverse affinità fra me e la Marta della Rondine, tanto che l’anno scorso quando preparavamo lo spettacolo sono caduta in una forte depressione, mi cadevano persino i capelli, perché vedevo mio figlio in quel ragazzo ucciso».
Ma qualcosa di divertente mai?
«Ho recitato con Carlo Verdone in Ma che colpa abbiamo noi (il film in cui un gruppo di pazienti affrontava la morte in diretta della terapista, ndr). Solo che mi hanno fatta tutta bionda, e nessuno mi ha riconosciuta!».

Marina Cappa, Vanity Fair

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