Stefania Sandrelli: «Gino Paoli scelse il nome di nostra figlia. Non eravamo sposati, ma non ho avuto paura dello scandalo»

«Stefanina, sei proprio sicura che vuoi fare questo mestiere? Lavori tanto, ti pagano poco e ci stiamo rimettendo!». Così Stefania Sandrelli ricorda le parole della mamma Florida, quando a 15 anni iniziava la sua carriera cinematografica. «Intendiamoci, i soldi devono servire per vivere e non bisogna vivere per i soldi – continua l’attrice – però è vero che a quel tempo, come ora, gli uomini sono pagati dieci volte di più delle donne. Bisogna ribellarsi e dire basta». Forse non a caso Stefania accetta di tornare in teatro con un personaggio particolare con cui inaugura un nuovo festival, «Il canto delle sirene», che nasce sull’isola di Capri, ideato e diretto da Geppy Gleijeses. L’11 settembre, nel Chiostro grande della Certosa di San Giacomo, l’attrice è in scena, insieme a Marisa Laurito, con un reading tratto dal romanzo «Il resto di niente» di Enzo Striano, di cui è protagonista Eleonora de Fonseca Pimentel, una delle figure più importanti della Repubblica Napoletana del 1799. «Una femminista ante litteram – riprende l’attrice – un’eroina, una fine intellettuale, una giornalista che fondò il giornale Monitore napoletano e che, nonostante fosse di nobili origini portoghesi, dovette difendersi da un marito violento: a causa delle percosse ricevute, subì due aborti. E quando la rivoluzione naufragò, i Borbone la fecero impiccare. Una figura coraggiosa, e dio solo sa quanto le donne, ancora oggi, hanno bisogno di combattere coraggiosamente per affermare i loro diritti e salvarsi da uomini violenti».

Un coraggio che a Stefania non è mai mancato.
«Certo, perché sono nata e cresciuta in una tribù, una famiglia piena di maschi, ho imparato da loro. E quando sono rimasta incinta di Amanda, da un uomo sposato (Gino Paoli ndr), ho affrontato serenamente lo scandalo: stiamo parlando del 1964».

Per questo decise di darle poi il suo cognome?
«No, per un altro motivo. Il nome di nostra figlia lo aveva scelto Gino e non ero d’accordo, perché una mia compagna molto violenta con me si chiamava proprio Amanda: tutte le volte che aspettavamo l’autobus insieme per andare a scuola, mi prendeva a cartellate in testa, mi rintontiva! All’inizio subivo, ma poi mi ribellai, gliene ho date altrettante e si è tolta il vizio. Comunque, tornando al nome, venni convinta da Gino: Amanda suonava come il gerundio di amare, era bello. Siccome però aveva deciso lui il nome, io decisi il cognome Sandrelli, punto e basta».

Riguardo alle rivendicazioni, lei si è mai sentita discriminata sul set?
«No, perché ho sempre avuto un caratterino ribelle. Per esempio con Pietro Germi, che mi ha trasmesso le basi fondamentali del mestiere, a volte ci scontravamo. Quando lui urlava durante le riprese io gli rispondevo strafottente: ahò! io faccio quello che posso, strilla di meno e fammi capire di più… e lui si calmava».

Si è mai pentita dello scandalo suscitato da «La chiave» di Tinto Brass?
«Mai! È stato un film femminista, dove io mettevo alla berlina il porco inverecondo guardone».

È vero che da ragazzina voleva farsi suora?
«Per carità! Andavo a scuola delle suore e mi trovavo bene. Poi mi piacevano le ostie: facevo la comunione solo per il gusto di sentirle in bocca. Avevo una idea personale della religione e una volta, in classe, feci una domanda a suor Valentina: esistono tante diverse religioni, perché solo la nostra è quella vera? Lei mi intimò imbarazzata: Sandrelli, siediti».

È reduce dalla sua prima regia lirica, la «Tosca» di Puccini. Ne sta programmando altre?
«Sono un’ingordona, mi piace fare tante cose insieme e quest’estate ho esagerato: mentre preparavo l’opera, ho girato un nuovo film. Adesso voglio riposarmi un po’ e godermi la mia famiglia e i miei cinque nipoti».

Emilia Costantini, corriere.it

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