Vent’anni senza Stanley Kubrick, l’ultimo grande regista del Novecento

Secondo molti, il più grande. Uno dei registi che ha creato il mito dell’autore, trapiantandolo nel cuore di una Hollywood in crisi, tra la fine dell’epoca classica e il tentativo di presa del potere da parte della generazione di Coppola e Spielberg. Un artista che ha frequentato tutti i generi, che ha saputo trattare con gli Studios, un ebreo del Bronx, americanissimo, che per quasi quarant’anni ha vissuto in Inghilterra, circondato dall’alone della leggenda.Moriva vent’anni fa, Stanley Kubrick, prima di dare gli ultimi ritocchi a Eyes Wide Shut, uscito postumo. Misantropo, maniaco del controllo, autore di film algidi e anti-umanisti che nascondevano una visione del mondo e del potere anarchica, e la coscienza dei limiti del cinema. L’ultimo regista del Novecento, come lui stesso sapeva: “I critici si aspettano da me ogni volta l’ultimo film possibile”, disse in un’intervista. E ovviamente, nessun regista potrà essere, dopo, all’altezza del cinema e del suo mito, perché è il cinema stesso a non essere più così grande. Tredici film diversissimi, i suoi, ma che si rimandano l’un l’altro.

Il bacio dell’assassino. Piccolo, rapidissimo noir urbano, quasi un esercizio di stile e di velocità. Virtuosistico nei flashback, in alcune sequenze già magistrali (l’incontro di boxe, il duello tra i manichini): il noir serve come perfetto terreno per mostrare la solitudine die personaggi.

Rapina a mano armata. Il primo grande Kubrick, costruito attraverso una serie di ritorni sulla stessa vicenda, comunica un senso del destino che va oltre il gioco narrativo.

Orizzonti di gloria. Film definitivo contro la guerra e il militarismo: non un pamphlet politico, ma una desolata visione morale e quasi esistenziale. Il finale, con la moglie di Kubrick che canta per i soldati, è la scena più commovente (forse la sola) di un cinema che si nega alle emozioni.

Spartacus. Kubrick affronta per l’unica volta un film su commissione, e dimostra che sarebbe stato un ottimo regista hollywoodiano. Uno dei migliori kolossal dell’epoca, scritto dal ‘blacklisted’ Dalton Trumbo e tratto dal romanzo del comunista Howard Fast. Da qui, in Europa, l’equivoco di un Kubrick ‘impegnato’.

Lolita. “Come hanno fatto a fare un film da Lolita?” Così la frase di lancio del film. La risposta è: trasformandolo in una slapstick comedy piena di umorismo nero. E trasformando il mondo letterario di Nabokov in uno scontro fisico di corpi e di gag, con la meravigliosa scheggia impazzita Peter Sellers.

Il dottor Stranamore. Farsa di incredibile e irraggiungibile radicalità, fino alla fine del mondo. I potenti, la guerra fredda, e sotto sotto il mito della virilità, con generali paranoici e missili fallici: Kubrick è già arrivato a una visione dell’uomo senza ritorno.

2001: Odissea nello spazio. Nasce la fantascienza moderna, e sarebbe il meno. Un film di personaggi post- o pre-umani (scimmie, computer, uomini senza emozioni), uno sperimentalismo mai visto in un film di queste proporzioni, l’estatica bellezza degli spazi infiniti a suon di valzer, una visione non si sa se salvifica o sarcastica dei destini umani.

Arancia meccanica. Stranamore proseguiva l’umor nero di Lolita, 2001 cominciava dopo la morte dell’uomo di Stranamore. Qui la scimmia-uomo è messa a confronto con i meccanismi del potere, con la pulsione ultima alla violenza, e anche la bellezza visiva è sfregiata e parodiata senza pietà, mostrandone il lato menzognero e kitsch.

Barry Lyndon. Il più grande film storico di sempre: perché Kubrick sa che un film storico non racconta un’epoca, ma racconta il senso della Storia, o il suo non-senso. L’estetica di Kubrick è da sempre ‘settecentesca’, anti-romantica, ma qui istilla nel secolo dei Lumi una malinconia schubertiana.

Shining. L’horror come fiaba che contiene mille metafore (antropologiche, politiche, sessuali, sociali), ma soprattutto riflessione sul tempo; film gemello di 2001, dal finale ambiguo, e allucinata riflessione sullo sguardo, sulla mente, sulla morte.

Full Metal Jacket. Kubrick torna all’ossessione per la guerra e la violenza, e va oltre ogni virtuosismo e ogni facile bellezza con un film duro, sporco, senza seduzione, sulla dualità dell’uomo (il simbolo della pace sta sull’elmetto accanto alla scritta ‘Born to Kill’) e diviso esso stesso in due blocchi distinti. Addestramento alla disumanizzazione / massacro: nient’altro.

Eyes Wide Shut. All’ossessione di Kubrick per il potere mancava il racconto dei rapporti tra uomini e donne. In questo viaggio al termine della notte del sesso, come altre volte, il sublime Kubrick termina il suo film quasi nello sberleffo. Le ultime parole di Nicole Kidman spazzano via cultura e società, in un sarcastico insulto e invito agli spettatori: “To fuck”.

Emiliano Morreale, repubblica.it

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