Edoardo Raspelli, il gastro critico più cattivo d’Italia: no a piatti tutti uguali

La Bibbia del gusto? Le ricette regionali italiane di Anna Gosetti della Salda (1967), summa della tradizione. «Una sorta di Vocabolario della Crusca, dove non c’è neanche il tiramisù, piatto troppo moderno». Parola di Edoardo Raspelli, milanese, classe 1949, il critico gastronomico più famoso (e goloso) d’Italia. Un reazionario, conservatore, talebano dei sapori. «In questo panorama di mortificante omologazione non c’è niente di più progressista della cucina della nonna», dichiara sornione il paladino del «parla come mangi». Di una cucina senza sofisticazioni, sterili azzardi, mediazioni intellettuali. Una cucina tranquillizzante e riconoscibile come una veduta di Venezia del Canaletto o un campo di papaveri di Monet. «Basta con pietanze da vetrina, perfette solo per anoressici sdentati», tuona il conduttore di Melaverde (Canale 5), che si scaglia contro la cucina molecolare, destrutturata, disidratata, centrifugata, in nome degli agnolotti piemontesi, delle orecchiette pugliesi, della coda alla vaccinara, del baccalà alla vicentina, della focaccia ligure, del castagnaccio toscano, della cassata siciliana, della pastiera napoletana…

La chiamano «l’uomo dal palato d’oro». È vero che lo ha assicurato?
«Sì, sono il primo e unico al mondo. Una ventina di anni fa ho stipulato una polizza che oggi mi copre gusto e olfatto per 500 mila euro. Il gusto si può perdere, a causa di un trauma, un virus, anche un raffreddore mal curato».

Per lei il cibo è…?
«Il piacere massimo, come il sesso, che appaga tutti i sensi».

La follia fatta per gola?
«Parigi a 16 anni. Ci arrivai da Milano in autostop e dormii in ostello, ma nello zaino avevo camicia, cravatta e abito blu per mangiare dal mitico Lasserre e la sera successiva alla leggendaria Tour d’Argent. Spesi circa 700 euro di oggi. Tutti i soldi delle mancette settimanali dei miei genitori».

Il luogo in Italia della buona tavola?
«La provincia, in particolare la Bassa bergamasca. La migliore ristorazione italiana non è nelle grandi città, ma fuori porta, dove la cucina è ancora legata alla terra, alla tradizione, alla ricchezza del territorio».

Parla di sé non come critico gastronomico, bensì come «cronista di gastronomia»…
«Nasco come cronista di nera al Corriere d’Informazione (edizione pomeridiana del Corriere della Sera dal 1945 al 1981, ndr), dove ho seguito gli anni di piombo. Nel 1975 il direttore Cesare Lanza mi affida una rubrica di ristoranti, “anche quelli cattivi, dove si è serviti male e si mangia peggio…”. Inevitabile parlare di cucina nel contesto di una narrazione più ampia, che contempla l’ambiente, il servizio, la pulizia, la convivialità. Quello che si mangia, alla fine, è sempre in fondo».

È famoso per le implacabili stroncature: quante querele ha collezionato?
«Una trentina, oltre a minacce, telefonate anonime e una corona da morto. Ho pure rischiato di essere fatto fuori per una critica a La vecchia Milano, ignaro che fosse il ristorante di un re della mala, Francis Turatello».

Chi le ha riservato la delusione maggiore?
«Ferran Adrià (a lungo considerato come il più grande chef del mondo, ndr), dove mi hanno servito 22 portate: 22 creazioni senza costrutto. Tra queste, un piatto di gelatina al Porto con semi di peperoni che, da che mondo è mondo, non si tengono, si buttano».

E con la cucina di ricerca come la mettiamo?
«Apprezzo la cucina d’innovazione, ma deve avere un senso, papillare e nutrizionale».

Chi ha fatto della cucina un’arte?
«Gualtiero Marchesi, che ha trasformato i piatti in capolavori estetici guardando, per esempio, al dripping di Jackson Pollock e alle Achrome di Piero Manzoni».

Come è cambiato il mondo del gusto in questi anni?
«Oggi è difficile mangiare male, si sono fatti passi da gigante in termini di tecnica, cottura, igiene (un tempo nelle cucine scorrazzavano allegramente gli scarafaggi), ma quello che sgomenta è l’insulsaggine, la follia di certi accostamenti e impiattamenti. Siamo lontani da quando buttavano tutto dalla padella dentro al piatto, ma ora rasentiamo l’eccesso e ti arrivano i piatti freddi perché in cucina li intarsiano come fossero miniature».

Le cose più detestabili di un ristorante?
«La mancanza di parcheggio, i profumi artificiali — compresi i fiori dall’odore invadente — e i menu degustazione, che ti fanno mangiare quello che piace al cuoco e non quello che piace a te».

L’indirizzo ideale?
«Piccolo, romantico, ma non galeotto; a conduzione familiare, con servizio buono, ma non opprimente e un’atmosfera elegante, ma cordiale».

Come sceglie i ristoranti da recensire?
«Non seguo mai le mode, lascio passare almeno un anno prima dall’apertura e soltanto quando un locale è consolidato lo provo. Non mi annuncio, prenoto con un nome fasullo e giungo inatteso come un cliente qualunque e sempre pagante».

Il sogno nel cassetto?
«Il remake come attore di Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d’Europa nel ruolo che fu di Robert Morley, critico gastronomico accusato di ammazzare gli chef secondo la loro specialità: uno cotto in un forno a 450°, un altro affogato nella vasca delle aragoste, un altro ancora con la testa fracassata nella presse à canard… ».

Quando il cinema ha saputo raccontare meglio il cibo?
«In tre film: Il pranzo di Babette, dove grazie a un solo pranzo un gruppo di accidiosi protestanti si converte alla sensualità e alla gioia di vivere; L’albero degli zoccoli per la celebrazione dei prodotti della campagna; Ratatouille, in cui viene poeticamente celebrata la cucina della memoria».

Ha dichiarato che adora mangiare e mangiare tanto. C’è un piatto che detesta?
«I pomodori gratinati, che mi ricordano le pensioncine della mia infanzia al mare, le rape rosse, il fegato di vitello grigliato e i vini da dessert. Sui dolci bevo acqua o un superalcolico».

Il suo buen retiro?
«Mozzio di Crodo in Val d’Ossola: 90 abitanti, qualche vacca, due alberghini stagionali e splendidi formaggi d’alpeggio. Una delizia».

Raspelli, grasso è bello?
« Macché! Solo nei dipinti di Botero, che ha fatto del grasso il simbolo di una bellezza libera da ogni stereotipo. Altrimenti è una condanna. Suor Germana diceva che la gola è un peccato mortale che si sconta vivendo. Anch’io ritengo che la gola sia un peccato, ma dico: chi se ne frega!».

Beba Marsano, Liberi Tutti (Corriere della Sera)

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