
Un presidente degli Stati Uniti in difficoltà (ma non si tratta né di Donald Trump né di Joe Biden), messaggi apocalittici provenienti dallo spazio e un gigantesco topo aggirarsi tra sogno e follia: “Symphony of Rats“, riproposta in prima europea dal Wooster Group di New York per l’apertura del 53° Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia, ha trasformato il palcoscenico in un’esplosione sensoriale e mentale, una navicella in orbita tra teatro sperimentale, cultura pop e intelligenza artificiale. Un viaggio ipnotico in cui il caos si è tramutato in poesia, e il corpo del teatro ha riflesso – come in uno specchio deformante e lucido – le fratture del nostro tempo.
Lo spettacolo ha aperto il festival oggi, sabato 31 maggio, nell’ambito del progetto “Theater Is Body, Body Is Poetry”, sotto la direzione dell’attore statunitense Willem Dafoe, rappresentando un momento di potente continuità e trasformazione nella storia del teatro d’avanguardia americano. “Symphony of Rats” (1988) è una delle opere più emblematiche di Richard Foreman, recentemente scomparso, artista visivo e teatrale visionario, fondatore dell’Ontological-Hysteric Theater. La sua poetica, basata sull’idea che il teatro debba funzionare sia come riflessione filosofica sull’essere che come esperienza fisica e perturbante, ha influenzato generazioni di artisti e registi.
Quasi quattro decenni dopo la sua creazione, il testo ha riacquistato nuova vita grazie al Wooster Group – storica compagnia cult della scena post-drammatica newyorkese – che, con l’autorizzazione e la benedizione dello stesso Foreman, ha realizzato una versione radicalmente contemporanea. La regia condivisa di Elizabeth LeCompte (che domani, domenica 1 giugno, riceverà il Leone d’Oro alla carriera 2025) e Kate Valk (interprete della produzione originale del 1988) ha trasformato l’opera in un collage performativo stratificato, visivo e sonoro, in cui le suggestioni di Foreman si sono mescolate con l’estetica ipermediale e ironicamente postumana del gruppo.
Il fulcro della pièce rimane il viaggio allucinato di un presidente americano (interpretato con magnetico disturbo da Ari Fliakos), che riceve misteriosi segnali dall’universo e crede di dover salvare l’umanità da una catastrofe imminente. Ma è proprio la sua mente – più che il cosmo – a esplodere: “La mia Polaroid mentale è rotta – esclama – scatto una foto, ma non succede nulla”. Fliakos ha aperto la performance con un racconto in prima persona, apparentemente autobiografico, in cui descrive una febbre psico-corporea post-vaccinazione (anti-Covid e anti-influenzale), fondendo attore e personaggio in una dissolvenza inquietante. Da quel momento in poi, la narrazione si è frantumata in una sequenza di visioni, episodi, apparizioni e intrusioni: Jim Fletcher nei panni di un dottore-scienziato/mutante techno-retro; Guillermo Resto che, seduto a un tavolo da conferenza, declamava sentenze attraverso un canestro da basket con voce da Darth Vader; Niall Cunningham come una sorta di folletto digitale al servizio del leader vacillante; e una figura femminile su schermo, proiezione inquietante di un’umanità forse già fusa con l’intelligenza artificiale.
Il palco, trasformato in un’astronave mentale, ha ospitato una scenografia composta da palloni, neon, immagini, oggetti di scena riciclati, strumenti elettronici e dispositivi di intelligenza artificiale: un ambiente a metà tra sala giochi, bunker governativo e installazione d’arte. Le proiezioni video di Yudam Hyung Seok Jeon e il sound design ipnotico di Eric Sluyter hanno creato un universo sospeso, dove la logica è implosa e la percezione ha preso il sopravvento.
Nel volume “Unbalancing Acts“, Foreman definiva “Symphony of Rats” come un’esplorazione del “rumore” psichico: l’ambiguità costitutiva della coscienza e la sua resistenza a ogni sintesi. Questa dimensione è stata rilanciata dalla versione del Wooster Group.
Il Group, che ha accentuato il carattere caotico, pop, post-cinematografico e ipercontemporaneo dell’opera. Sono emersi riferimenti espliciti a “The Suicide Squad“, “Women in Love“, “Star Wars“, a Charlie Chaplin e al suo film “Il grande dittatore“, e persino a John Cena; citazioni ironiche ma mai gratuite, che hanno conferito profondità e stratificazione al paesaggio mentale nel quale si muoveva il protagonista.
La drammaturgia è apparsa deliberatamente antinarrativa: “Symphony of Rats” non ha presentato una trama da seguire, bensì un campo di esperienze, una serie di movimenti, quasi “quadri sonori”, capaci di evocare stati mentali, collassi percettivi, e sovrapposizioni tra reale e virtuale. La performance ha dimostrato di avvicinarsi a una forma di installazione performativa, dove il tempo risultava dilatato e disarticolato, e il pubblico era invitato a diventare complice, piuttosto che interprete, di un sogno altrui.
LeCompte e Valk, nelle loro annotazioni registiche, hanno sottolineato come la nostalgia abbia avuto un ruolo fondamentale nel processo creativo: “Desideravamo spingere la nostra arte verso il futuro, ma a volte non possiamo fare a meno di riflettere sul passato. La nostalgia ci ha fatto sentire che il nostro lavoro ha radici e continuità”. In effetti, questa “Symphony of Rats” è sembrata proiettarsi verso il futuro (con intelligenza artificiale e corpi digitali) senza dimenticare le proprie origini negli anni ’80 del downtown di New York, tra collage dadaisti e critica del potere.
La prima della Biennale Teatro è stata, in definitiva, un trionfo di contraddizioni: inquietante e ludico, disturbante e ironico, astratto e visceralmente corporeo. Un debutto che ha segnato un momento importante: non solo come tributo vivo e non celebrativo a Richard Foreman, ma come esempio di come il teatro, quando abbandona la narrazione e accoglie il rischio, possa diventare uno strumento per esplorare la mente e il mondo. “Symphony of Rats” ha ricordato che il teatro sperimentale americano non è un museo da commemorare, ma un organismo vitale capace ancora di reinventarsi, mettere in crisi e, soprattutto, suggerire nuove domande. Domande sul potere, sull’identità, sulla percezione e sull’umanità in un’epoca che sembra accelerare verso la propria caricatura.
William Dafoe, presente in platea allo spettacolo inaugurale al Teatro delle Tese dell’Arsenale, ha collaborato stabilmente con il Wooster Group per oltre vent’anni, prendendo parte a molte delle loro produzioni più iconiche. Ha lavorato a stretto contatto con Elizabeth LeCompte, co-fondatrice e regista storica della compagnia, nonché sua compagna di vita per molti anni. Il suo stile attoriale, fisico, intensamente tecnico e lontano dai codici tradizionali del realismo, è stato fortemente influenzato dal lavoro con il gruppo e, a sua volta, ha contribuito a definirne l’identità. Anche dopo aver intrapreso una brillante carriera cinematografica, Dafoe è rimasto legato alla scena sperimentale e ha continuato a tornare a teatro, soprattutto con la compagnia newyorkese.
Tra gli spettatori della prima, insieme al presidente della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco, erano presenti anche i direttori dei settori Musica, Caterina Barbieri, e Danza, Wayne McGregor.