«LA MIA VITA DA ZUCCHINA», UN CAPOLAVORO MALINCONICO

Nel film di animazione di Claude Barras storie di un’infanzia tradita:
poesia, commozione e ironia, ma soprattutto mai ipocrisia o superficialità

lamiavitadazucchina_posteritaIl suo nome è Icare ma vuole essere chiamato come faceva sua mamma: Zucchina. Ha nove anni, una gran testa rotonda, due occhi altrettanto tondi e grandi e i capelli blu. Al poliziotto che lo interroga, risponde che la madre beveva molto ma faceva anche un purè molto buono e che il papà non c’è ma l’ha disegnato sull’aquilone con la sua gallina, perché — aggiunge — «la mamma diceva che aveva un debole per le pollastre».
Prima di questa scena, straziante nella sua trattenuta comicità, abbiamo visto Zucchina — animato con la tecnica del passo uno — giocare in soffitta col suo aquilone, raccogliere le lattine di birra abbandonate dalla mamma e costruire una specie di torre, la cui rumorosa caduta fa irritare la madre e salire traballando le scale che portano al rifugio di Zucchina. L’improvvisa chiusura della botola per proteggersi dai suoi rimproveri e il silenzio che segue fa intuire quello che il poliziotto Raymond dovrà spiegare al ragazzo: adesso è solo e sarà accompagnato dove troverà altri bambini come lui, senza genitori.
Con un’essenzialità tanto efficace quanto coinvolgente, La mia vita da Zucchina ha bisogno solo pochi minuti (fino all’incontro con il poliziotto ne son passati 7) per trasportare lo spettatore in quel misto di malinconia e delicata comicità che è la chiave per entrare in questo capolavoro di animazione e di poesia dedicato all’infanzia e ai suoi temi più dolorosi. All’origine c’è il libro omonimo di Gilles Paris da poco tradotto in italiano da Piemme ma uscito in Francia nel 2002 come Autobiographie d’une courgette (e già diventato film con attori in carne e ossa nel 2007: C’est mieux la vie quand on est grand, di Luc Béraud). Nel 2008 lo svizzero Claude Barras, disegnatore di fumetti poi passato all’animazione ma fino ad allora autore solo di alcuni corti, ottiene nuovamente i diritti per una versione animata ma è solo grazie all’incontro con Céline Sciamma che il progetto si concretizza davvero.
Alla regista francese, che aveva già dimostrato la sua sensibilità verso l’infanzia con Tomboy, Barras affida la sceneggiatura: è sua l’idea di trasformare la perdita della madre in un involontario incidente (nel romanzo succedeva per un colpo di pistola) ma soprattutto è lei a scegliere l’economia di mezzi e di parole che danno al film quel suo procedere con attenzione e delicatezza insieme, in un mondo non certo accomodante o edulcorato (i bambini che Zucchina troverà nella casa-famiglia hanno ognuno alle spalle storie tragiche e drammatiche: genitori drogati, madri rimpatriate a forza, padri pedofili o ladri o assassini). Il resto lo fa il fascino dell’animazione a passo uno con i personaggi di plastilina che devono essere mossi a ogni fotogramma: otto mesi di riprese per realizzare in media quattro secondi di film al giorno (utilizzando 62 scenografie e 53 marionette, di cui ben 9 solo per Zucchina), seguiti da sei mesi di postproduzione.
Il risultato è un film emozionante e bellissimo, dove anche i temi più duri vengono trattati con sensibilità e pudore, ma soprattutto mai con ipocrisia o superficialità (il che sconsiglia la visione ai piccolissimi). Una messa in scena molto controllata, con pochi movimenti di macchina e una durata media delle scene piuttosto lunga, oltre a quegli occhioni commoventi, innesca l’empatia e permette al film di affrontare temi anche urticanti senza cadere mai nel facile conformismo.
Le brutture esistono al mondo e sarebbe sbagliato chiudere gli occhi: Barras sa però evitare il sensazionalismo o, peggio, il voyeurismo, perché su tutto il film, che affronterà anche la nascita del sentimento dell’amore (negli adulti tra il maestro di scuola e l’assistente; nei ragazzi tra Zucchina e l’ultima arrivata Camille), si stende un’atmosfera che si può definire «dickensiana», di testarda fiducia nella possibilità di risolvere i problemi e di rinfrancante ottimismo sull’esistenza della bontà. Come appunto dimostra chi gestisce la casa-famiglia (tenerissima la scena in cui l’assistente distribuisce il «bacio della buonanotte» ai piccoli) o il burbero poliziotto Raymond, anche lui segnato da una paternità difficile ma infine capace di restituire fiducia nella vita di Zucchina e della sua nuova amica.

di Paolo Mereghetti, Corriere Della Sera

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