Eleonora Daniele: “In tv usavo parole facili. Così parlavo a mio fratello”

Quel velo di tristezza negli occhi. Resta lì, nel profondo, anche quando il volto si apre a un sorriso. Ecco, adesso, sappiamo il perché: Eleonora Daniele lo ha raccontato in un libro dedicato al fratello Luigi, affetto da una forma grave di autismo, morto nel 2015. Una vita passata accanto a un bambino nato negli anni ’70, quando di quella sindrome si sapeva pochissimo, fatta di felicità e dolore, di fatica e di conquiste, di affetto e addii. Per lei è stato molto difficile mettere nero su bianco un tale turbinio di sentimenti: ci è riuscita dopo anni, quando era in attesa della primogenita Carlotta. Un libro come un parto. Quando ti guardo negli occhi (Mondadori) è un modo per conoscere meglio la conduttrice di Storie italiane, il programma d’attualità del mattino di Raiuno, ma anche un invito a comprendere e accogliere la diversità.

Eleonora, perché hai deciso, adesso, a sei anni dalla sua morte, di raccontare chi era tuo fratello?

«È stata la gravidanza a farmi scattare la molla. Mi ha fatto capire come si sentiva la mia, di madre, quando le è nato quel figlio, quando ha dovuto combattere contro i pregiudizi, l’ignoranza, l’inesistenza di diagnosi e cure. Io ero la sorella piccola, gli sono stata accanto da quando sono nata, ma essere la mamma è un’altra cosa».

Scrivere è anche una liberazione

«Voglio che il mio dolore si trasformi in una risorsa per gli altri. A molti una vita come quella di Luigi, che non poteva fare nulla se non esistere, appare come inutile e improduttiva. Invece lui non è stata una zavorra, ma un dono immenso. Non lo dico da buonista o idealista, ma da chi ha vissuto questa esperienza in prima persona. E lo voglio gridare al mondo intero».

La tua notorietà può aiutare altri.

«Infatti. Quando è morto Luigi non avevo più motivi per lottare. Poi ho riflettuto a lungo: tante persone bussano al mio programma per raccontare le loro storie, per denunciare le mancanze della sanità pubblica. Ho conosciuto molti genitori di ragazzi autistici che con il tempo sono diventati amici. Allora ho pensato che se mi è toccata in sorte questa vita, anzi se il Signore ha voluto che nascessi sorella di una persona disabile, ci doveva essere un motivo. E, allora, ho deciso di mettere la mia rabbia al servizio degli altri, di farmi portavoce delle persone in difficoltà e delle loro famiglie, troppo spesso lasciate sole».

Luigi non parlava, non comunicava, era impenetrabile. Tu, sua sorella, sei cresciuta con il dono della parola, talmente comunicativa da diventare conduttrice televisiva.

«Certamente il mio è un dono. Tutto il contrario di quello che era mio fratello. A volte per trovare spiegazioni bisogna affidarsi alla fede o alla filosofia. Il destino è una porta aperta: non sai mai quello che trovi quando la apri. Io mi sono trovata in questa situazione: forse era un karma».

Credi nelle filosofie orientali?

«Le ho approfondite molto. E mi ritrovo in molti insegnamenti. Tutto quello che accade era già stato scritto da noi stessi, dalle nostre anime, nel ciclo continuo tra vita e morte dove le persone si accendono e spengono. Quando si sale al cielo forse si sprigiona un’anima che aveva un destino già scritto e credo che questo sia il mio».

Una specie di missione?

«Sì, penso di sì. Fin da piccola ho messo sempre in primo piano mio fratello, io venivo dopo, perché lui era quello che aveva bisogno. Per questo – anche se non si direbbe visto il lavoro che faccio – sono rimasta in fondo timida come una bambina. E ho riversato questo atteggiamento anche nel mio lavoro: cerco di mettermi dietro le storie che racconto, non devo essere io la protagonista».

Luigi riuscivi a capirlo?

«Lui non pronunciava una sillaba, ma quello che provava te lo diceva con gli occhi e con i sorrisi. Mi ricordo quando ci sdraiavamo sotto la nostra quercia e guardavamo il cielo. Sapevo che se passava una farfalla la vedeva anche lui, anche senza dirmelo. Aveva momenti di gioia e altri di buio e rabbia e non sapevi mai quando sarebbero arrivati e da dove nascessero. Ho imparato a capirlo, a gestirlo, a prevenire quei momenti, anche per sopravvivere: non ti faceva entrare facilmente nel suo mondo, ma se ci riuscivi, era per sempre».

Una scuola di vita portata in tv.

«Mi dicono che in studio sono scaltra, rapida, in grado di seguire più temi contemporaneamente. È perché, da piccola, mentre facevo i compiti, dovevo seguire anche Luigi, controllare che non si facesse male e non facesse del male ad altri. I miei genitori e le mie sorelle grandi erano al lavoro. Era normale, a quell’epoca, che una bambina (avevo sei anni in meno di lui) si occupasse del fratello malato, anche se ero smilza, un’alicetta. Non vedevo l’ora che i miei tornassero alla sera per stare un po’ in pace. Le giornate belle erano quelle in cui non succedeva nulla di grave. Ma io l’amavo ed ero felice di stare con lui. Il dono più grande che mi ha lasciato è la capacità di capire l’animo umano, entrare in contatto con le persone».

Lui ti guardava in tv.

«Sì, quando da adulto viveva in istituto gli facevano vedere i miei programmi. E mentre conducevo pensavo a quale tono sarebbe stato adatto a lui, sceglievo le parole più semplici e dirette. Questo mi ha aiutato a usare un linguaggio che tutti gli spettatori possano comprendere».

Insomma, questa esperienza ti ha definita come persona, sei così perché sei cresciuta con lui.

«Credo di sì. Ho fatto della mia debolezza il mio punto di forza. Potevo diventare una donna intimidita dalla vita, ma fin da piccola ho imparato a lottare, ogni volta che ho la tentazione di mollare penso a mio fratello e agli sforzi titanici che lui doveva fare per stare al mondo».

Luigi è vissuto in famiglia fino a quando è diventato adulto, poi avete dovuto metterlo in un istituto.

«Quando era piccolo viveva con noi a Saonara, in provincia di Padova, tra la nostra casa e la bottega di alimentari dei miei genitori. Non aveva regole né limiti, poteva capitare che in negozio buttasse a terra scaffali pieni di barattoli, ma con l’aiuto dei nonni e delle mie sorelle riuscivamo a gestirlo. Una volta cresciuto, grande e grosso, neppure mio padre era in grado di contenerlo quando aveva le crisi di rabbia. A volte mi picchiava, mi tirava i capelli fino a strapparmeli. I miei genitori furono costretti ad allontanarlo da casa. Io ero disperata, volevo portarmelo via, ma a quell’epoca ero un’adolescente, mi sono sempre ripromessa che un giorno sarei andata a riprenderlo. Con il tempo ho capito che quel posto era diventata la sua casa».

Poi te ne sei andata da Padova a Roma, per seguire la tua strada: l’occasione è stata il Grande Fratello e poi lo sbarco in tv fino a diventare uno dei volti di punta della Rai.

«Io non avevo mai pensato di fare tv, già lavoravo, mi consigliarono di fare dei provini, poi c’è stato quel treno e l’ho preso. Comunque, qualsiasi cosa stessi facendo, Luigi era il mio pensiero fisso. Tornavo spesso a trovarlo. Purtroppo, però, non abbiamo più avuto tempo: pensavo di invecchiare con lui, e invece è morto all’improvviso».

È stato uno shock.

«Alla mattina mi ha chiamato mia sorella. Mi stavo preparando per andare in trasmissione. È stato un dolore atroce. Sono rimasta paralizzata per giorni. Per tornare in video ho dovuto sdoppiarmi. Luigi era ancora un giovane uomo, aveva 45 anni. Dicono che il tempo lenisca il dolore, ma invece il mio è identico ogni giorno. Soprattutto perché è morto senza essere malato».

E non è mai stato accertato il motivo.

«Io credo che, alla fine, sia stato lui a decidere di andarsene. Ma non si è tolto la vita, ha semplicemente smesso di lottare. Per questioni burocratiche, lo avevano trasferito dall’istituto che era diventata la sua casa, in un altro. Per lui era stato un colpo duro, per un autistico le abitudini sono fondamentali. Forse non ha accettato questo».

Nel libro parli anche di senso di colpa: tu con un bel lavoro, lui in istituto.

«Per molto tempo li ho avuti. Poi ci si rende conto che non si può salvare nessuno, che non sei Dio, e che se cerchi di sostituirti al destino rischi di fare del male. Puoi solo accompagnare una vita, non cambiarla».

Aver scritto il libro ti ha liberata da questo peso?

«Da una parte mi sono stupita di me stessa: non pensavo di riuscire a rivelare emozioni così intime. Di Luigi non parlavo mai né con le mie sorelle né con mia madre: per anni abbiamo preferito il silenzio. Perché faceva troppo male».

E tua madre come ha reagito?

«C’è un capitolo dedicato a lei intitolato Iva la combattente. Lei è una donna d’altri tempi, figlia della guerra, molto più forte di me. È una sopravvissuta alla morte del figlio».

I tuoi spettatori hanno apprezzato la condivisione della tua vita privata.

«Questo libro l’ho scritto per chi mi segue da anni e anche per chi non mi conosce. C’è un rapporto di fiducia tra me e il pubblico: noi entriamo nelle loro case e loro si fidano, devono sapere che non menti, che sei lì per loro e che li ringrazi per seguire le tue trasmissioni».

Speri anche di incidere sulle istituzioni, di spronarle a fare di più e meglio per le persone disabili?

«Quando Luigi è nato, nel 1970, non si sapeva quasi nulla dell’autismo, si pensava fosse una malattia mentale. Si rinchiudevano i ragazzi in reparti psichiatrici. Se avesse potuto fare fin da piccolo percorsi di recupero, di logopedia, avrebbe potuto avere una vita diversa».

Oggi molte cose sono cambiate.

«Si, ma non abbastanza. Gran parte del peso, parlo in generale per tutti i disabili, ricade ancora sulle famiglie. Serve un’unione importante di forze: economiche, sanitarie, assistenziali. Nel libro metto insieme il dolore per la perdita di mio fratello e la gioia della gravidanza anche come messaggio di speranza, di sguardo verso il futuro».

Racconti di aver visto cose terribili in istituto.

«Ai tempi in cui era ricoverato Luigi c’erano situazioni ottime e altre orribili, dipendeva molto anche dal personale. Lui aveva trovato amicizia e sostegno in un operatore fantastico. Io tante volte ho visto pazienti legati ai letti. Magari solo per necessità. Adesso il sistema di assistenza è totalmente diverso, ma bisogna sempre essere vigili, ci vogliono controllo e trasparenza. Anche la tecnologia può essere di aiuto. E servono dei reparti ad hoc e degli operatori specializzati per le persone autistiche quando vengono ricoverate in ospedale. Perché loro non capiscono dove e perché si trovano lì».

Hai fondato anche un’associazione

«L’ho creata con le mie sorelle. Stavo aspettando il treno in uno dei miei tanti viaggi tra Roma e Padova e mi sono chiesta cosa facciamo noi per questi ragazzi?. Si chiama Life Inside: aiutiamo familiari e associazioni, finanziamo progetti, corsi di linguaggio e inserimento nel mondo lavorativo. Quello che avrebbe dovuto fare mio fratello da piccolo».

Alla fine del libro, c’è una lettera scritta a tua figlia Carlotta, che ora ha un anno e mezzo, per raccontarle chi era suo zio.

«Vorrei crescesse ricordando che la diversità non è un difetto, ma una risorsa. Davanti a chi è considerato fuori schema e fuori norma, tu non ti ritrarre – le scrivo -, tuo zio era assolutamente imperfetto e per questo superlativo. Era come una radiolina che non riesce a sintonizzarsi sulla frequenza degli altri, ma con i soli occhi o pochi gesti sapeva fare mille discorsi. Tu non demordere perché, per ogni porta chiusa, esiste una chiave per aprirla. Ecco, vorrei trasmetterle, tramite Luigi, la forza per lottare per le cause giuste».

Laura Rio, ilgiornale.it

Torna in alto