La “poesia visiva” dei Velvet Underground & Nico con Andy Warhol, cimeli e video per raccontare New York

La mostra, in programma fino a 30 dicembre al numero 718 di Broadway, esplora la tentacolare influenza che Lou Reed, John Cale, Moe Tucker, e Sterling Morrison, con la Factory che rivoluzionò la pop art, ebbe sulla moda, l’arte, la cultura popolare e, non ultima, la musica

Sui mattoncini alle pareti, il calco di un divano, porte bianche, un parruccone, occhiali scuri e, all’improvviso, il volto di una sirena che dice: “Era tutto chiaro, allora. Chiaro come il sole”. A cinquant’anni dall’uscita di The Velvet Underground & Nico, Andy Warhol e Nico sono quasi ologrammi dell’insurrezione. In un sotterraneo di Broadway, oltrepassata una cortina di festoni e capelli d’angelo, sta scritto ‘New York Spirit‘. È qui che rivive la storia – lo spirito – della rock band nata dall’incontro Lou Reed-John Cale nella New York underground anni Sessanta. Poesia, rock, avant-garde: al gruppo si uniscono Sterling Morrison, studente di letteratura appassionato di rock’n’roll, Moe Tucker, batterista dal ritmo tribale, e Christa Päffgen, futura Nico, “l’iceberg biondo” che Andy Warhol trasforma nella cantante dei Velvet Underground.La mostra Velvet Underground Experience (versione aggiornata di quella di Parigi di due anni fa, aperta fino a dicembre) è un omaggio alla band e al milieu della Factory di Warhol; le canzoni del gruppo, la maggior parte scritte da Lou Reed, sono passate per David Bowie, Patti Smith, Joy Division, R.E.M. e Nirvana. Al 718 di Broadway, a pochi isolati da Café Bizarre e The Dom (i regni delle performance dei Velvet Underground) la mostra esplora per la prima volta il gioco tra musica e show sperimentali, come la serie Exploding Plastic Inevitable di Warhol, ai tempi della controcultura nel Greenwich Village.Il designer Matali Crasset ci guida tra luridi costumi di scena, dolcevita neri, la mitica cover/opera d’arte di Warhol con la stampa della banana, fotografie, artefatti, super8 e un osservatorio di luci ‘trippy’ e stroboscopiche attaccate al soffitto del Bandsintown Studio. Segue un tour nel mondo del bassista e co-fondatore John Cale, che incontrerà il pubblico in settimana. New York è l’altro grande ‘spirito’ della mostra, con una pila di polaroid e giganteschi album sfogliabili, istantanee della città scattate dal veterano del Village Voice Fred McDarrah, frammenti di vita di strada e un giovanissimo Bob Dylan che si esibisce in un club folk. I Velvet sono ancora le figure più moderne e misteriose della storia del rock americano, secondo Variety. Il loro legame con il cinema e l’America del consumismo dilagava già nei testi e nella pittura ma trova la sua perfetta fusione in America/America diretto dal regista e documentarista di Tarnation, Jonathan Caouette. Cinque minuti di scazzottate tra cultura e controcultura nel dopoguerra, due Americhe gemelle che parlano con il lip synching del padre della Beat Generation, Allen Ginsberg: “Mesi prima che la mostra prendesse vita ho ritrovato una mail di Christian Fevret (fondatore del magazine Les Inrockuptibles, ndr) e Carole Mirabello che mi chiedevano se fossi interessato a montare un video con immagini d’archivio”, ci racconta Caouette. “L’idea era quella di usare le parole di Allen Ginsburg e costruirci una poesia visiva sull’America, una rappresentazione dell’America mainstream da una parte e quella subalterna e anarcoide in una diversa porzione dello schermo. Avrei dovuto pescare da un pozzo di immagini che va dal 1955 al 1965. Sono un ossessivo compulsivo, un ridicolo perfezionista: alla fine ho riversato in digitale ore e ore di videocassette dalla mia collezione personale insieme ad altri film e documentari. Non ho mai lavorato a qualcosa di così metodico in vita mai, eccetto un video musicale di John Grant. Il mio lavoro, per un totale di diciotto schermi separati e sincronizzati tra loro, è una specie di YouTube ripping e favoloso, vagamente queer, che prende il ritmo dalle parole pronunciate da Ginsberg. C’è, nei suoi testi profetici, una malinconia senza tempo. L’incarnazione delle molteplici morti del paese”. E aggiunge l’autore: “Un’amica artista mi ha detto che in queste immagini ha trovato il punto di vista di un’America morente mischiato a un forte senso di speranza, e alla febbre del sogno. In ogni cosa che faccio e che esploro, devo trovare speranza. Se è vero che la storia si ripete, comunque, l’America di oggi è fottuta. Ci rifletterò nel mio prossimo lungometraggio che parte dallo stesso condotto spazio-temporale di Donnie Darko”.La mostra scioglie poi alcuni nodi politici degli anni Sessanta, attraverso i ritratti di oltre 250mila attivisti che si battevano per i diritti civili nel ’63; i bambini di Harlem costretti dalla povertà a vivere come senza dimora sui marciapiedi, mimando le armi da fuoco con le dita della mano; la Washington March con James Baldwin e Marlon Brando; Susan Sontag mentre partecipa al Sex Symposium nel ’62. Immersione totale anche negli anni della Factory: droga, sesso e questioni esistenziali, attorno al principe della pop art in uno studio loft “nato per accelerare le particelle dark dei Velvet Underground”. Teche con poster, vinili, il flexidisc Loop (“Music, Man, That’s Where It’s At!”), l’intervista a un uomo che ha assistito al primo live dei Velvet Underground (1965) e racconta dell’effetto di Heroin su una platea di liceali e garage rocker sconvolti; la sorella di Lou Reed, Merrill Reed Weiner, che legge un saggio scritto per il Guardian in cui racconta dei genitori che costrinsero Lou Reed, adolescente, all’electroshock. Art film come Christmas on Earth, girato da Barbara Rubin a 17 anni (è stata lei, insieme a Jonas Mekas, a presentare i Velvet Underground a Andy Warhol), fotografie di Baby Lou e una copia di Esquire con Nico. E copertine di LP: dalla collezione Allan Rothschild spunta il retro di una delle prime stampe di The Velvet Underground & Nico, con la faccia di Eric Emerson, uno dei ballerini di EPI – Exploding Plastic Inevitable e parte del gruppo glam punk Magic Tramps, sparata (e pubblicata) nella foto dei musicisti senza però avergli chiesto il permesso. La capsula temporale dei Velvet prosegue con l’abbandono di Nico, Warhol e Cale, quando Lou Reed si trova a dover reinventare la band assieme al multistrumentista Doug Yule che dal 1967 al 1970 lo convince a zigzagare per gli Stati Uniti – i nightclub di Boston, Chicago e Philadelphia – snobbando New York City. Col cartello exit di Reed (1970) e gli ‘screen test’ di Warhol e Gerard Malanga, recuperiamo i tre minuti di silenzio e zero movimento a cui si sono sottoposti, tra gli altri, Charles Henri Ford, Paul Morrissey, Marisa Berenson, Donovan, Salvador Dalì, Mary Woronov, Piero Heliczer e Allen Ginsberg. Una motionless d’America che in realtà non ha nulla di inanimato o di immobile. Si muove ancora. Gira e si sbuccia fino ad oggi, proprio come l’immortale banana-graffito dei Velvet Underground.

Filippo Brunamonti, repubblica.it

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