CON MARCO D’AMORE, MAMET PARLA NAPOLETANO

Fino al 23/10 a Roma, star Gomorra in American Buffalo

MARCO D'AMORE, REALTA' MOLTO PEGGIORE DI GOMORRA”Quanto vale? Questa è la domanda, pe’ tutt’ ‘e cose. Quanto vale?”. La battuta arriva cruda e spiazzante, mentre la disperazione cresce e la tensione comincia a diventare pericolosa. Don cerca di aprire gli occhi al suo protetto e l’altro, ‘O professore, li guarda in attesa di capire se il gioco volgerà a suo favore. E’ l”‘American Buffalo” del premio Pulitzer David Mamet, che dalle periferie urbane americane arriva dentro al cuore di Napoli, dei suoi vicoli e puteche (le botteghe in dialetto), con Marco D’Amore, l’eroe maledetto del Gomorra televisivo, regista e interprete al Piccolo Eliseo di Roma, fino al 23 ottobre.
Scritto nel 1975, arrivato al cinema vent’anni dopo con Dustin Hoffman protagonista, il testo è oggi la terza tappa di un viaggio lungo due anni nella drammaturgia di Mamet che Luca Barbareschi (da sempre frequentatore delle sue piece), porta ora da direttore e produttore nel suo teatro (dopo ”China Doll” con Eros Pagni è in questi giorni nella sala grande anche ”Glengarry Glen Ross” con Sergio Rubini), dopo esserne stato interprete lui stesso proprio su queste tavole, ormai 32 anni fa.
Un piccolo grande classico, che D’Amore ha riletto insieme allo scrittore Maurizio De Giovanni, traducendo il ”sound” dal basso cui l’autore fa più volte riferimento, nella ”lingua” musicale e popolare per eccellenza: il napoletano. Così, nell’anteprima andata in scena ieri sera con incasso interamente devoluto per le popolazioni colpite dal terremoto, protagonista è Donato Russo, detto ‘Don’ (Tonino Taiuti), rigattiere con una sfrenata passione per tutto ciò che è americano, dalla colazione ai modi dire, alla musica. Nella sua bottega affollata di cianfrusaglie, bandiere a stelle e strisce e biciclette appese al soffitto, mentre spegne con ribrezzo la radio al primo accenno di un ‘O sole mio, va in scena la storia di un fallimento. La scrittura di Mamet, come è sua cifra, lo coglie quasi in corsa e quasi come in una jam session ”suona” i suoi strumenti. Arriva Roberto (Vincenzo Nemolato), il ragazzo scemotto, ma che per riconoscenza farebbe di tutto per Don. E poi sornione, più infido, ecco The teach che in napoletano diventa ‘O professore e inevitabilmente, nel nome e negli accenti, per un momento ricorda altri personaggi eduardiani. Ma poi ecco D’Amore, irriconoscibile e bravissimo, con lo sguardo basso, la balbuzie che tradisce tensione, diffidenza e sotterfugi e quell’ironia mai ostentata cui nessun napoletano rinuncia e che lo salva quando è messo alle strette. Ciro l’immortale è lontano anni luce eppure, forse, abita solo qualche stradone più in la. Solo per un attimo, sulla porta, ‘O professore si abbandona a uno ”sta’ senza preoccupazioni”, che sembra quasi un’autocitazione. Ma non stona. Perché questa è forse l’altra faccia della medaglia della stessa storia, quella però senza epica. Anzi, l’altra faccia della moneta: quell’American Buffalo di conio americano che potrebbe valere una fortuna e che i tre protagonisti pianificano di rubare. E’ la storia di un fallimento, di un progetto perso già prima di iniziare. E che non è solo legato a una fortuna da spartirsi, ma a qualcosa di più ambizioso: un posto, un ruolo agli occhi dell’altro. E’ l’incertezza del nostro tempo, la possibilità di giocarsi tutto, la vita e la morte, con un colpo soltanto. Ma quanto vale tutto questo?

Ansa

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