Carlo Verdone festeggia 40 anni di carriera: «Il mio vero mestiere? Pedinatore di italiani»

Anatomia di un mestiere: «Sono stato un pedinatore di italiani, un osservatore maniacale del dettaglio, un analista del peccato veniale. Assorbivo debolezze, tic e fragilità e le riproponevo in chiave di commedia. Il fumatore con il dito giallo di nicotina, il macho che si toccava il “pacco” per sentirsi un vero uomo o il playboy che partiva per Cracovia con il sedile ribaltabile e il pettinino nella tasca della giacca, non esistevano soltanto nei film. Erano intorno a me. Li avevo visti con la stessa curiosità che fin da bambino, dal bagno di servizio della casa in Via Lungotevere dei Vallati, mi aveva spinto a guardare il sarto cucire per ore orli e pantaloni o la ragazza dai lunghi capelli castani con cui un giorno sognavo di fidanzarmi, indirizzare parole a chissà chi riempiendo grandi fogli bianchi». Per scrivere la storia di Carlo Verdone, 66 anni, 25 film, un doppia dozzina di David, Nastri e Globi d’oro a occupare le scansie, servono più numeri che parole: «Ho iniziato a fare l’attore esattamente 40 anni fa, al Teatro Alberichino, nel momento in cui la cassiera ha strappato il primo biglietto di Tali e quali».

Sotto il cartellone che annuncia Rosmunda con Paolo Poli, lei sosta di fronte all’ingresso.
«Dopo il diploma al Centro Sperimentale, un paio di documentari, un esperienza da assistente alla regia in un film un po’ scollacciato di Franco Rossetti, un’infinità di porte in faccia, altrettanti “le faremo sapere” e un notevole freddo preso nelle cantine dell’underground romano, mi chiedevo cosa dovessi fare della mia vita. “Meno male che ho preso la laurea” mi dicevo. Prospettive nel mondo dello spettacolo ne avevo poche. Andai a cena con il direttore dell’Alberichino, Obino, e nacque quell’occasione».

Cosa cambiò dopo quella cena?
«Obino si disse certo che nascondessi un talento comico e mi propose di scrivere qualche testo e di affittare il teatro per un paio di settimane. Mi misi d’accordo con Daniele Formica che però a un passo dal debutto mi disse “Non me la sento”. Mi ero impegnato a pagare trecentomila lire, una cifra enorme. Ero disperato e provai a fuggire telefonando a Obino per rinunciare. Quello fece orecchie da mercante e più secca ancora fu mia madre che quella conversazione l’aveva ascoltata dal primo all’ultimo minuto: “Se non vai sul palco ti prendo a calci in culo”».

Mantenne la promessa?
«Me lo diede davvero e fece bene. Al quinto giorno si presentò un solo spettatore. Recitammo comunque e alla fine, di fronte ai lamenti crepuscolari dei miei compagni d’avventura: “È stata un’umiliazione, non ci sarà mai una seconda occasione, siamo finiti ancora prima di aver iniziato”, dissi seriamente, non so quanto credendoci, che eravamo stati degli eroi e che il senso del teatro era proprio in quella recita per una singola persona. Che ringraziò andandosene e il giorno dopo, su Paese Sera, occupò una pagine per scrivere: “È nato il nuovo Fregoli, correte a vederlo”. Era Franco Cordelli. Quella sera mi ha cambiato la vita».

Con chi sente di aver debiti?
«Con quelli che come lo scenografo e regista Franco Bottari o Filippo Paolone, il titolare della Giada Film, quando ho chiesto aiuto non si sono voltati dall’altra parte. Sono stati in pochi. Dopo il Centro Sperimentale andavo a offrirmi in giro gratis come assistente, ma le produzioni non volevano pagare neanche l’assicurazione».

Paolone le offrì un lavoro?
«Mi offrì di realizzare due piccoli film, uno sui castelli nel paesaggio laziale e un altro sull’Accademia musicale chigiana. Intervistai Giuranna, Navarra, Accardo, Gazzelloni e Franco Ferrara, mi sentii utile e onorato».

Lei non aveva ancora esordito.
«Mio padre Mario, importante studioso di cinema, era stato selezionatore al Festival di Venezia e scriveva saggi su Bianco & Nero. Non era raro che alla porta si presentassero Pasolini o Fellini. Federico era insonne, proprio come me. Una volta lo incontrai di notte, in Via del Babuino, in attesa di salire su una macchina della Polizia. “Mi faccio un giretto, sai com’è, non dormo niente”.

Su una macchina della Polizia?
«Andava a curiosare nell’umanità che poi descriveva nei suoi film. Per un certo periodo, dopo aver chiesto permesso: “Ti posso rompere i coglioni alle 7 del mattino?” mi telefonava per raccontarmi quelle avventure notturne. Le scene che vedeva, l’allegria forzata, le solitudini».

Le ha raccontate anche lei.
«È la mia vena malincomica e non ci posso fare niente. C’è in tanti film: Un sacco bello, Bianco Rosso e Verdone, Compagni di Scuola».

Malcom Pagani, Il Messaggero

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