Marco D’Amore, ultimo atto di Gomorra: «Volevo che il mio Ciro l’Immortale sparisse subito»

Marco D’Amore è un attore filosofo, ed è l’eroe della serie tv più amata, Gomorra. Poi, sempre per Sky Original, ha girato il film Security di Peter Chelsom, dov’è a capo «del servizio di sicurezza di telecamere delle ville dei ricchi a Forte dei Marmi. D’inverno avviene un piccolo fatto di cronaca nera, si scatenano le accuse reciproche. Io, solitario, taciturno, metto in atto una mia indagine privata».

Anche Ciro di Gomorra è un solitario, però è un sopravvissuto e un criminale, non una guardia. Come sarà la quinta e ultima serie?

«Ciro torna redivivo, in Lettonia, dove si ricostruisce una vita col diktat di non tenare indietro. Ma il nemico-amico Genny si mette sulle se tracce. E torna in Italia. Dopo la seconda stagione volevo che Ciro sparisse, mi sentivo estraneo, al provino non me ne fregava nulla. Non immaginavo che quel personaggio mi avrebbe cambiato la vita».

Ma perché si presentò con aria di sufficienza?

«Facevo teatro di qualità, avevo tante proposte. C’era anche un po’ di snobismo. E poi quando raggiungo uno status, ho la capacità di distruggerlo, è un mio malessere. Se non ho stimoli non regalo più nulla allo spettatore».

Ciro, l’antieroe romantico, l’anima feroce e l’umanità spezzata. Lo detesta o lo comprende?

«Tra dieci anni avrò il giusto distacco e sarò in grado di rispondere a questa domanda. C’è stato l’idillio, l’amore, lo schifo, l’odio. Ho sentito l’odore cattivo di posti dove la vita è considerata nulla., ma che magari un giorno avranno un grande futuro. Mi scrivono: non voglio che succeda nulla a Ciro. C’è un’evoluzione continua in lui, sentivo che gli mancava una nota di calore che lo rendesse strano, storto, è violento ma si commuove, atti atroci e piccoli gesti che lo rendono umano. E ha a creato un corto circuito. Chi dice che con Gomorra si crea il rischio emulazione nei giovani non ha mai visto i giochi violenti della playstation, non ha mai seguito un video virale. Il rischio emulazione è nei politici che non considerano l’umanità disgraziata per la propria salvaguardia personale».

E’ vero che Madonna è una fan di Gomorra?

«Fa parte della mitologia che circonda questa serie. E’ vero che ne sono fan Ridley Scott e James Franco, con Michel Fassbender ho avuto una corrispondenza sul cellulare. Benicio Del Toro e Josh Brolin quando hanno lavorato con Stefano Sollima gli hanno fatto un sacco di complimenti. Gomorra è un cult negli Stati Uniti, che produce il 90 percento dei prodotti più forti».

Lei ha vissuto una Campania complicata?

«Con mio fratello sono cresciuto con chi faceva una vita normale e con chi è andato incontro a una fine disperata. Mi rivedo in C’era una volta in America di Sergio Leone. Ho avuto un’infanzia memorabile, lo dico guardando con tristezza alle nuove generazioni, alle loro utopie commerciali. Per strada di notte ce la cavavamo con gente più grande che ci ha fortificati, in un quartiere dove c’era bisogno di abilità per sopravvivere».

Com’era Caserta negli Anni ’90?

«Era il luogo dei Casalesi. Il centro era un po più chic,lì loro scendevano come orde a colonizzare la città. Nel mio liceo scientifico, il Diaz, si appostavano per fare la corte alle ragazze, si creavano capannelli, le scene di violenza cruenta erano all’ordine del giorno. Un piccolo boss come dimostrazione di forza indicò alla sua ragazza una coetanea che ci provava con lui. La ragazza prese un giornale, lo arrotolò come un bastone e picchiò la rivale, non si lamentava, al gruppo diceva di farsi gli affari loro».

E lei?

«Io ero quello che parlava forbito, il che mi dava un certo rispetto e curiosità. Poi ero creativo, facevo ridere, suonavo il flauto e il clarinetto. Era un mondo di bische, di sale gioco, di contrabbando… Il racconto della povertà lo vedevo. Al liceo c’era Roberto Saviano. Lo chiamavano l’indiano, aveva i capelli lisci fin dietro la schiena. Era piuttosto impegnato, mentre per tanti di noi la scuola occupata era il cazzeggio di non andarci. Facemmo l’autogestione più lunga d’Italia».

Saviano l’ha ritrovato anni dopo per «Gomorra».

«Lo incontrai una prima volta a Milano, quando cominciavo a recitare in un teatro mezzo disastrato dove lui venne a presentare Gomorra. C’era un grande clamore, non si ricordava di me, aveva lo stress del libro».

Il suo mentore Toni Servillo?

«Mi ha complicato la vita, quando hai la fortuna di trovarti accanto a chi ammiravi, senza nemmeno avere la forza di andare a trovarlo in camerino…Essendo così completo come artista, o cerchi di diventare come lui o lasci perdere questo mestiere e fai il pizzaiolo. Avevano bisogno, lui e Andrea Renzi, di un attore per un piccolo ruolo per una riduzione da Pinocchio. Mi ha fatto capire il lavoro duro».

Si cresce nel gelo, diceva Eduardo.

«Toni mi diceva, non sai fare niente, stai qua e impara. Mi raccontò dei suoi inizi, a Campobasso fu scambiato per suo fratello Peppe, il cantante; gli capitò di recitare davanti a venti persone».

Lei ha vissuto a Milano.

«Ne ero follemente innamorato, anche per la durezza con cui mi ha accolto. La stazione ferrosa e grigia, il freddo…Frequentavo la scuola Paolo Grassi. Il mio periodo bohémien. Vivevamo in quattro in 70 metri quadrati a viale Famagosta. Senza materassi. Dividevamo il pacchetto di sigarette, facevamo le collette per comprare il pane. E’ stato bello. La fase dei poeti maledetti, un quartiere di extracomunitari, i ragazzi arabi pensavano che lo fossi anch’io. Mi dicevano: anche noi fingiamo di essere italiani. Dicevo: ma io sono napoletano!».

C’è qualcosa in cui non si sente partenopeo?

«Mi rattrista la rappresentazione del napoletano guascone. Napoli è una città scientifica, non semplicemente teatrale in modo quasi dilettantistico. Pochi sanno perché Forcella si chiama così: è una Y, una lettera pitagorica, quello era un quartiere di scienziati e matematici».

Lei è anche regista.

«La mia natura non è quella dell’attore ma del progettare storie. I miei esempi sono Welles e De Sica: attori, registi, produttori, sceneggiatori, hanno attraversato i generi, rappresentavano la genialità e a volte la cialtroneria».

Il 12 giugno compie 40 anni.

«Questo è un mestiere che si fa a bilanci. Festeggio anche 25 anni di carriera. A 15 anni ho avuto il primo contrattino in una compagnia semiprofessionale. Sono contento dei successi e degli insuccessi».

Valerio Cappelli, corriere.it

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