STEVEN SPIELBERG: “IL MIO RITORNO ALLA FANTASIA È QUELLO CHE SO FARE MEGLIO”

Il regista del Grande Gigante Gentile: «Un racconto d’amicizia sincera»

steven-spielbergUn gigante timido e una bambina coraggiosa. Nel mondo delle favole i più deboli si uniscono e fanno la forza, la diversità è una dote che può dare frutti meravigliosi e i cattivi, alla fine, sono ridicolizzati oltre che sconfitti. Gli universi creativi del narratore Roald Dahl e del regista Steven Spielberg si fondono nel Grande Gigante Gentile, il film (con Mark Rylance e Ruby Barnhill) tratto dal celebre racconto pubblicato nell’82, lo stesso anno in cui E. T. incantò le platee del mondo. Insomma, prima o poi, l’incontro doveva avvenire, perché tra i due autori i punti in comune sono tanti: «Il GGG è un’esperienza speciale – dichiara Spielberg -, rappresenta la mia fuga in ciò che credo di fare meglio, cioè lasciare libera la mia immaginazione».
Che cosa l’ha spinta a realizzare il film?
«Desideravo raccontare la storia di un’amicizia sincera e priva di cinismi. Qualcosa, quindi, che mi tocca nel profondo. Mi interessava il messaggio, e anche la possibilità di sperimentare tecnologie nuove, sia per me che per il pubblico. In fondo questi sono i due principali obiettivi della mia carriera».
Quando ha letto la sceneggiatura di Melissa Mathison, oggi purtroppo scomparsa, qual è stato l’aspetto che l’ha più colpita?
«L’audacia della bambina Sophie, il fatto che non si faccia spaventare da nulla, nemmeno dall’idea di ritrovarsi nella “Terra dei Giganti”. E poi il fatto che lei capisca molto velocemente che cosa spaventa il suo nuovo amico e che lui comprenda, con la stessa saggezza che un nonno potrebbe avere verso un nipote adottivo, le cose che sono mancate a Sophie. Come accade in ogni grande amicizia, i due, stando insieme, si completano e aggiungono valore alle loro rispettive esistenze».
Come ha trovato la protagonista Ruby Barnhill?
«Ho guardato centinaia di video con ragazzine dai 7 agli 11 anni e mi ha stupito la gran quantità di talento che c’è in giro, soprattutto in Gran Bretagna, in Australia e in Irlanda. Eppure non riuscivo a trovare la bambina giusta e cominciavo a deprimermi. Poi un giorno, a Berlino, durante le ultime settimane di riprese del Ponte delle spie, ho visto la registrazione del provino di Ruby Barnhill, ricordo che mentre lo vedevo mi sono alzato in piedi, non potevo credere ai miei occhi… poi abbiamo fatto un test di personalità e quando Sophie ha cominciato a parlare di se stessa, ho capito che avevamo trovato la nostra protagonista».
Lei è un grande regista di bambini, che cosa ha imparato dalla sua esperienza?
«Lascio sempre che i bambini portino nelle storie il meglio di se stessi, evito di dirigerli troppo. Più capiscono la situazione in cui si trovano ed entrano in relazione con essa, più sono in grado di aggiungere magia. Se non riesco a farli entrare nel racconto, non potrò mai ottenere la performance che cerco».
Quella del «GGG» è un’avventura emozionante, ma anche piena di momenti buffi.
«Il libro è ricco di umorismo, e io volevo mantenere intatta questa caratteristica, le parole strane, il curioso dialetto “wigglish” del protagonista. Anche i giganti sono bulli sadici, ma non nella maniera in cui siamo abituati a vedere certi personaggi dei blockbuster di oggi. Loro sono, volutamente, non abbastanza intelligenti da apparire davvero cattivi, Dahl li ha riempiti di un machismo sbruffone che ci permette di prenderli in giro».
Nel film c’è un momento particolarmente divertente che riguarda i cani Corgi della Regina. Ha temuto di urtarne la sensibilità?
«In verità l’unica cosa che mi ha preoccupato è stata la prospettiva di dover adottare una mezza dozzina di Corgis per soddisfare i desideri dei miei nipoti che, vedendo il film, se ne sarebbero sicuramente innamorati».
Negli effetti speciali lei è sempre stato all’avanguardia. Stavolta come è andata?
«Credo siano stati gli effetti speciali più complessi che abbia mai affrontato. Volevo che l’interazione tra GGG e Sophie fosse il più fluida possibile, tanto da far dimenticare le tecniche con cui è realizzata. Bisognava piegare la tecnologia ai bisogni emotivi dei personaggi».

Fulvia Caprara, il Giornale

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