Buratto, un grande Verdi in salsa catalana

Il giovane soprano italiano trionfa nella “Luisa Miller” al Liceu di Barcellona

«Non ci sono più le voci di una volta» è una delle frasi che sentono più ripetere, anzi sospirare, nei foyer italiani. Quale volta (“Una volta!”), e quali voci di solito non è meglio specificato. E’ evidentemente una sparizione talmente evidente che non occorre spiegarla, un po’ come quella delle mezze stagioni: dunque mettiamoci il cuore in pace e il soprabito leggero, quello appunto da mezza stagione, in naftalina. Però, finito di sbadigliare per l’ennesima ripetizione di una banalità, bisogna pur ammettere che, come in ogni luogo comune, anche in questo c’è del vero, almeno per quel che riguarda il repertorio più spinto verdiano o verista, per tacere di Wagner (invece nessuno potrebbe dire che oggi ci siano meno voci per il barocco che trent’anni fa). Ma, come al solito, la realtà è più sfumata. Diciamo che non è vero che non ci sono più grandi voci, ma probabilmente è vero che ce ne sono meno.Per questa ragione, quelle ancora esistenti vanno seguite, anche per monitorarne debutti, evoluzioni, rivoluzioni e talvolta, ahimè, involuzioni. E allora si vanno a vedere produzioni anche non memorabili: vociomania portami via. Nel caso, al Liceu di Barcellona, dove ha debuttato in “Luisa Miller” di Verdi (nel secondo cast, nel primo c’è la star del Met, Sondra Radvanovsky) Eleonora Buratto, il più emergente dei giovin soprani italiani.Il test è significativo. A Luisa, Verdi non ha risparmiato nulla. La parte inizia con una cavatina gorgheggiata da ingenua o da sonnambula protoromantica e finisce come Leonora del “Trovatore”, insomma da lirico-spinto o da drammatico. In mezzo, di tutto e di più: forse la parte sopranile più “completa” e impegnativa scritta da Verdi (nel caso, per Marietta Gazzaniga, che purtroppo ebbe una carriera corta perché sposò il solito nobiluomo rendendo impossibile la sua permanenza sulle scene). Buratto è un soprano lirico con un bellissimo timbro pieno e piuttosto scuro e soprattutto un’ottima tecnica che le permette di padroneggiare una dinamica ricca e sfumata. Non è né particolarmente sfogata in acuto né a suo agio nelle agilità, e non è l’unico dettaglio in cui ricorda la Freni: chiaro che per lei il momento più insidioso è la cavatina del primo atto, tuttavia risolta senza problemi ma, come dire?, con un po’ di comprensibile prudenza. Il seguito è stato invece molto interessante, a tratti esaltante, nonostante una direzione pesante e inespressiva che non solo non dava input interpretativi ma non raccoglieva nemmeno quelli in arrivo dal palcoscenico.Ottimo il Finale primo, dove la voce di Buratto svettava nel concertato. E ottima la grande scena del secondo atto, in un’alternanza di cantabili accarezzati da una serie continua di diminuendo e rinforzando e di scatti di rivolta dove lo slancio era sostenuto da una voce piena, compatta, grintosa: la cabaletta “A brani, a brani, o perfido”, in questo senso, non permette trucchi. Eccellente, poi, tutto il terzo atto, il migliore di quest’opera sottovalutata che qui si eleva all’altezza dei Verdi massimi. Come succede nei casi migliori, il perfetto controllo del mezzo, il canto, non è fine a sé stesso ma diventa un fine, il teatro: senza eccessi o forzature, ma utilizzando la tecnica per creare espressività. Buratto lo interpreta nel modo giusto: senza cantarsi addosso com’è successo a molte Luise anche eccelse, e senza tracimare nel verismo, ma cercando di seguire e servire Verdi, che è infallibile. E riuscendoci perfettamente. Insomma, la trasferta catalana “valeva il viaggio”, come si dice dei ristoranti, habemus Luisa, come capita di rado, e speriamo soltanto che se ne accorga qualche teatro italiano. E magari qualche loggionista, prima di continuare a ripetere che non ci sono più le voci…Brevemente, il resto. Si tratta della ripresa di una vecchia produzione di Damiano Michieletto per l’Opernhaus di Zurigo che nella prossima stagione approderà anche all’Opera di Roma: bellissimo spettacolo, concreto e compatto, in perfetto dialogo con le scene come sempre splendide di Paolo Fantin detto “Fantineon”, che infatti i suoi tipici neon li ha piazzati anche qui. Direzione pessima, come si è detto, di Domingo Hindoyan: niente colori, niente rubati, niente espressività, niente di niente. Tanto varrebbe mettere sul podio un metronomo, almeno ci si arrabbierebbe con lui. Rodolfo è Arturo Chacón-Cruz, un tenore che ha una certa tendenza a strafare e a cantare sempre forte, ma regge la parte (il finale del secondo atto è pesantuccio) e scenicamente è credibile come solito belloccio italiano pasticcione conteso da due donne. Juan Jesús Rodríguez, Miller, è un altro di quei cantanti che o cantano forte o cantano forte, implacabilmente per tutta l’opera: però la voce è tanta e l’acuto sicurissimo. Diciamo che all’Arena funzionerebbe, alla Scala magari no. Sonia Prina, per una volta in libera uscita dal barocco, dà un insolito risalto all’ingrato personaggio della Duchessa e fra i bassi il Wurm luciferino e “nero” di Marco Spotti ha più risalto del Walter di Carlo Colombara, disgraziatamente in serata no. Coro e Orchestra del Liceu, sinceramente, li ricordavo migliori. Teatro mezzo vuoto tipo Scala delle ultime settimane e, incredibilmente, difficoltà a cenare a mezzanotte: a Barcellona? In zona Ramblas? Non c’è più religione, oppure i catalani la secessione dalla Spagna l’hanno già fatta senza dircelo…

Alberto Mattioli, lastampa.it

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