Buone notizie. Su Amazon arriva la serie cult “The office”

Perché guardare o riguardare le nove stagioni di uno degli show più divertenti della storia della televisione

Jim Halpert, Pam Beesly, Michael Scott, Dwight Schrute e tutti gli altri: sono i protagonisti della versione statunitense di The Office, una delle serie più importanti della storia della televisione che è finalmente disponibile per intero su Amazon Prime Video. Chi l’ha apprezzata durante il suo corso originale, ossia tra il 2005 e il 2013, ha aspettato a lungo che qualche servizio di streaming mettesse a disposizione degli abbonati le nove (lunghissime) stagioni con episodi da venti minuti dello show. È ora possibile goderle d’un fiato in un’esperienza di visione che resterà impressa per molto tempo. È garantito.

Un successo globale

The Office non nasce negli Stati Uniti; ideata da Stephen Merchant e dal più celebre Ricky Gervais, parte come serie per la tv inglese. Andata in onda su Bbc Two dal 2001 al 2003, ha un impatto straordinario anche a livello internazionale: viene, infatti, adattata per le specificità locali di otto paesi tra cui Francia, Germania, Svezia e Canada. E il punto è proprio questo. Più che uno show, è un format altamente versatile, non solo replicabile ma modificabile senza che ne vengano perdute le caratteristiche salienti. Il merito è della natura universale del setting o della premessa che è la vita d’ufficio con i suoi schiaffi e le sue carezze, i suoi stereotipici abitanti e i suoi gesti ripetuti all’infinito come fossero parte di un copione visto e rivisto. Ci sono il mattacchione carismatico e intelligente, la segretaria timida e l’impiegato ossessivo-compulsivo; soprattutto c’è il pessimo capo che crede di far ridere e invece mette in costante imbarazzo superiori, colleghi e sottoposti.

Problemi di traduzione

La prima stagione della versione Usa di The Office è un po’ più dura da digerire (occorre resistere, tanto è cortissima: solo sei puntate). Accade perché Greg Daniels, lo showrunner, non ha voluto correre immediatamente il rischio di distaccarsi dal format inglese. Dopo la reazione tiepida ai primi episodi però, è divenuto lampante: per quanto della serie si dovesse conservare il nucleo, delle modifiche — basate sulle specificità socioculturali locali — erano necessarie. È così che il Michael Scott di Carell si è distaccato dal cinico e indigeribile David Brent di Gervais, divenendo pian piano e fino alla nona stagione una figura piuttosto a sé, circondata da comprimari che pur rimanendo sulla falsariga inglese assumono un’identità unica. Tutto questo è già ampiamente visibile dal primo episodio della seconda stagione. Bisogna superare il primo scoglio per scoprire davvero quel che la serie ha da offrire.

Provare vergogna per gli altri

In tedesco, una parola designa l’emozione principale suscitata da The Office: fremdschämen, che vuol dire provare vergogna per gli altri. Il personaggio ideato da Ricky Gervais per se stesso e poi interpretato da Steve Carell nella versione statunitense con il nome Michael Scott, infatti, si mette nelle condizioni di essere compatito. Crede di far ridere ma è patetico; è convinto che il suo ufficio sia un regno fiorente anche se, in realtà, ciascuno convive con la minaccia del licenziamento; è sicuro che il team sia la sua famiglia ma chiunque si limita a sopportarlo perché non c’è alternativa. World’s Best Boss: ecco il motto che appare sulla tazza preferita di Scott l’illuso e sta per «miglior capo al mondo» anche se ogni singola battuta o azione dicono il contrario. Eppure non è solo il suo pessimo senso dell’umorismo il problema della Dundler Miffin, ditta che vende carta come nella serie Uk: sono un po’ tutti i tipi umani che gravitano nello spazio condiviso della filiale di Scranton, in Pennsylvania. Ognuno è in qualche modo intrappolato in se stesso, nelle sue abitudini e nelle sue gabbie; e ognuno, a suo modo, fa di tutto per essere amato.

La storia d’amore più bella della tv (e tutto il resto)

Non è un’esagerazione: è possibile che il lento innamoramento tra Jim Halpert (John Krasinski) e Pam Beesly (Jenna Fischer), rispettivamente addetto alle vendite e segretaria della Dundler Miffin, sia uno dei più appassionanti della televisione almeno negli ultimi quindici anni. Ostacolatissima e logorante, è questa storia d’amore – ma non solo questa, le romanticherie abbondano anche tra colleghi – una delle ragioni fondamentali per guardare lo show di Greg Daniels anche più volte. I personaggi di The Office sono infatti davvero tridimensionali, profondamente umani al di là delle connotazioni individuali che rischiano di imprigionarli nello status di macchiette. Dwight Schrute (interpretato dal bravissimo Rainn Wilson) per esempio è un nerd appassionato di barbabietole (?) con un senso della realtà quantomeno vacillante; l’interazione tra lui e Jim Halpert potrebbe sostenere da sola la lunghezza della storia. Menzione speciale anche a Mindy Kaling, sceneggiatrice e anche attrice nel ruolo di Kelly Kapoor: conoscerla meglio è una delle ricompense promesse dalle stagioni sul lungo termine e un altro dei motivi per cui restare con The Office anche al tempo della peak tv, ossia della sovrabbondanza di serie televisive nella quale siamo immersi. Nel bene e nel male.

Parks & Recreation e l’effetto déjà-vu

The Office è un mockumentary, ossia un falso documentario (girato con una sola telecamera): in parte sketch comedy con episodi autoconclusivi, ciascuna microstoria ne nutre una più grande raccontata dall’inizio alla fine della stagione. Se avete già guardato Parks & Recreation — la serie tv temporalmente successiva a The Office — nella quale Amy Poehler veste i panni dell’attivista green Leslie Knope, vi sembrerà di avere un paradossale déjà-vu. Accade perché gli autori sono gli stessi. Per lo show ambientato a Pawnee, Indiana Greg Daniels è infatti affiancato da Mike Schur che aveva già scritto The Office. Si tratta di prodotti gemelli, con somiglianze evidenti e un posto d’onore nella recente comicità americana. Certo, The Office è migliore, e per tanti versi inimitabile. Buona visione.

Marina Pierri, Corriere.it

Torna in alto