Christian De Sica: “Scoprii al telefono che papà aveva una figlia con un’altra”

«Il primo consiglio da parte di papà quando stavo per esordire in palcoscenico a 18 anni? Con tono rigoroso mi raccomandò: Christian, prima di entrare in scena, un’ombra di grigio sulle palpebre e basta!». Christian De Sica è un figlio e fratello d’arte (del musicista Manuel) come ce ne sono pochi. Eppure ha iniziato facendo il cameriere in Venezuela. «Mi vergognavo a fare l’attore, con padre attore e grande regista, e madre attrice (Maria Mercader ndr). Mi sentivo un cane, non volevo fare brutte figure e, siccome avevo una fidanzatina venezuelana, me ne andai dall’altra parte del mondo: conoscevo lo spagnolo grazie a mamma e volevo provare a cimentarmi nelle prime esperienze artistiche lontano da casa per non dover subire ingombranti paragoni. All’inizio, non trovando lavoro, mi adattai a fare il cameriere in un albergo lussuoso, il Tamanaco Hotel di Caracas».
I clienti davano buone mance?
«Mica tanto. I sudamericani ricchi sono smargiassi e piuttosto cafoni. Da quelle parti c’è una disparità sociale abissale: i poveri sono poverissimi, i ricchi ricchissimi. Fu la conoscenza di un ricchissimo che mi cambiò le prospettive».
Chi era?
«Renny Ottolina, un produttore radio-televisivo, soprattutto un personaggio molto conosciuto e amato dal pubblico, una specie di Mike Bongiorno. Mi prese in simpatia e mi offrì un contratto da cantante-attore, intrattenitore. Poi mi invitava spesso a viaggiare con lui sul suo aereo: in una di queste vacanze, mi sono beccato l’epatite».
Sull’aereo?
«No! Era un viaggio in Amazzonia. Atterrammo di notte in un piccolo aeroporto: sulla pista, una lunga fila di fiaccole e di indios che ci attendevano con omaggi floreali e cesti di frutta. Erano seminudi e sul pene esponevano una specie di buccia di banana. Uno di loro mi offrì un frutto: evidentemente l’ho mangiato senza lavarlo o sbucciarlo. Dopo qualche tempo diventai tutto giallo in faccia. Mamma al telefono mi disse: che stai a fare là, torna a casa».
E dovette riprendere gli studi…
«Mi ero iscritto alla facoltà di Lettere, papà voleva che mi laureassi. Quando gli avevo espresso il desiderio di fare l’attore, mi aveva risposto a brutto muso: sei matto? Per accontentarlo, frequentavo le lezioni di giorno, però di sera di nascosto cominciavo a esibirmi in qualche locale. Ho dato solo 7 esami: due 30 e lode e cinque 30. Per fortuna non ho continuato, sarei stato un laureato fallito».
Perché?
«Ho perso mio padre che avevo 23 anni e mi sarei ritrovato senza lavoro. Invece, avendo già intrapreso questo mestiere per conto mio, piano piano mi sono fatto strada, ma è stata dura. Ricordo i primi tempi in cui ero fidanzato con Silvia (Verdone): facevamo la fame ed era lei a portare i soldi a casa, pagava l’affitto della casetta in cui vivevamo, perché io, nelle prime apparizioni cinematografiche guadagnavo pochissimo. Solo quando firmai il primo contratto con Carlo Vanzina detti una gomitata a Silvia dicendole: d’ora in poi mangeremo bene».
Se papà Vittorio avesse avuto il tempo di vedere i vituperati cinepanettoni, li avrebbe criticati?
«Assolutamente no. Lui pure ha iniziato la carriera con film comici come Un garibaldino al convento, pellicole di cassetta, tipo Pane amore e Andalusia, oppure film con Maurizio Arena… Secondo me gli sarebbe piaciuto un mio successo come Natale sul Nilo. I cinepanettoni hanno descritto l’Italia di oggi molto meglio di altri film autoriali che nessuno ha visto. Il fatto è che nel nostro Paese il successo non ti viene perdonato: se non sei brutto, se hai una bella famiglia, e fai pure soldi al botteghino è troppo! E pensare che io non sono mai stato uno che se la tira. L’umiltà è l’insegnamento più importante avuto da mio padre, che ha vinto 4 Oscar, ma io ho vinto 32 Biglietti d’oro».
Quanto ha pesato un padre del genere nella sua carriera?
«Pochissimo! Quando stava a casa era un borghese tranquillo come tanti. Se gli chiedevamo qualche curiosità sugli attori che dirigeva in quel momento sul set, rispondeva “per carità! non mi far parlare della Loren, della Lollobrigida, di Mastroianni…”. Un padre severo, questo sì, un uomo nato nel 1901, teneva molto alla nostra educazione: a tavola non si dicevano parolacce, ma non faceva sentire il suo peso di artista internazionale. Mi sono reso conto della sua importanza al funerale: una marea di gente al Verano che gli rese omaggio e alla fine un lungo applauso. Anche da morto faceva spettacolo. Peccato averlo potuto frequentare poco: l’ho conosciuto che aveva già i capelli bianchi. Quando mio fratello e io eravamo piccoli non giocava con noi, non ci portava sulle giostre o al lunapark, semmai ci faceva recitare, a casa, in scenette davanti agli amici».
Però, accanto a lui, avete avuto la possibilità di conoscere personaggi incredibili…
«Certo! Per esempio quella volta che venne a casa Charlie Chaplin e, assieme a mamma, aspettavamo papà. Avrò avuto 5-6 anni e il grande Charlot, già anziano, per intrattenermi nell’attesa, giocava con la sua bombetta. Io non sapevo chi fosse e, quando arrivò mio padre, gli dissi “c’è un vecchio scemo che gioca col cappello!”. Oppure quando, avrò avuto 2 anni, sul set del film Stazione Termini, mi scappava la popò e mi metto sul vasetto a espletare la funzione. Montgomery Clift, protagonista del film, durante una pausa prende un altro vasetto e si accuccia anche lui vicino a me, per farmi compagnia».
Poi Roberto Rossellini…
«De Sica e Rossellini, due amici, due geni, maestri del Neorealismo, due rivoluzionari, i primi a mettere la macchina da presa per strada, in un periodo in cui i film si giravano solo nei teatri di posa e si raccontata tutta un’altra Italia».
Il Neorealismo dava fastidio.
«Non dimentichiamoci la celebre frase di Andreotti: i panni sporchi si lavano in famiglia».
E lei si fidanzò con Isabella Rossellini…
«Frequentavo casa loro con papà e rammento una scenetta divertente. I due registi erano seduti in salotto davanti alla tv, a guardare Lello Bersani che raccontava la notte degli Oscar. Il giornalista, a un certo punto, annuncia con enfasi che era candidato Nanni Loy. Mio padre, con sussiego, chiede al collega: “Chi è questo Loy? Cosa ha fatto?”. L’altro risponde, con altrettanto sussiego: “È un giovane, ha fatto quel film… Le quattro giornate di Napoli”. Poco dopo Bersani annuncia che l’Oscar era stato assegnato a un altro film».
La notizia fu commentata con rammarico?
«Macché! Con evidente soddisfazione, si scatenano entrambi con pernacchie e facendo il gesto dell’ombrello».
Un padre non pesante, anche divertente, ma ingombrante: con due famiglie.
«Eccome! Si divideva tra noi e la prima moglie Giuditta Rissone e la figlia Emy con la quale ci siamo conosciuti la prima volta al telefono. Ci chiama, dicendo: “Pronto sono tua sorella”. Quando papà seppe della telefonata, ci chiese preoccupato: “Che v’ha detto?”. Io gli rispondo: “Che è nostra sorella! E tu papà ce lo potevi dire prima, no?”. Poi riuscì a divorziare e finalmente i miei genitori si sposarono in un paese vicino a Parigi: erano già in là con l’età, eppure mia madre non rinunciò all’abito bianco, molto bello».
Bello come gli abiti di Wanda Osiris?
«No, Wanda ne aveva di pazzeschi, costavano un mucchio di soldi. Ai miei esordi ho lavorato con lei, che era già anziana e pure sorda: quando le parlavi, dovevi scandire bene le parole. E, diciamo la verità, elegantissima nel suo scendere le scale, di innegabile fascino, ma bruttina».
Il difetto maggiore di Vittorio De Sica?
«La passione per il gioco d’azzardo: nei casinò perdeva tutto ciò che guadagnava. Una volta a Montecarlo lasciò sul tavolo talmente tanti soldi che Onassis, comproprietario del Casinò, gli disse: “Con quello che lei ha perso ieri sera, noi rifaremo tutte le aiuole intorno al palazzo”. Meno male che mamma al casinò vinceva parecchio e sosteneva le spese del ménage familiare».
E lei ha messo su famiglia con la sorella di Carlo Verdone. Come vi eravate conosciuti?
«A scuola. Io ero stato precedentemente bocciato e quando entrai nella sua classe, tutti mi guardavano male: essendo figlio “di”, mi consideravano antipatico. Ma vidi Carletto che era seduto da solo al banco e così gli proposi: “se mi fai sedere accanto a te, ti passo tutte le versioni di greco già tradotte”. Affare fatto, e diventammo amici inseparabili».

Emilia Costantini, Corriere.it

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