Morricone, un anno dopo la morte: a lui sarà dedicato l’Auditorium di Roma, poi l’inedito per pianoforte

«Io, Ennio Morricone, sono morto». E’ passato un anno da quell’annuncio choc. Era il 6 luglio quando a 91 anni, per i postumi di un incidente domestico al femore, si congedò in punta di piedi, scrivendo l’autonecrologio: «C’è solo una ragione che mi spinge a salutare tutti così e ad avere un funerale in forma privata: non voglio disturbare». «Lo pensava veramente», dice Marco Morricone, 64 anni, primo dei quattro figli. Andrea è direttore d’orchestra, Alessandra fa il medico, Giovanni è regista. «Io ho fatto il concessionario d’auto e lavorato alla Siae, ho voluto costruire la mia vita fuori dal suo ombrello». E’ Marco che dagli Anni 90 accompagnava il padre nei viaggi per i concerti, e che gli somiglia nella ritrosia e nella riservatezza. Ora parla per la prima volta.

Marco rivela che il 5 luglio, con una cerimonia, l’Auditorium di Roma sarà intitolato ad Ennio Morricone. Poi c’è la prima registrazione assoluta di un pezzo per pianoforte e il documentario di Tornatore che fu suo grande amico: dovrebbe andare alla Mostra di Venezia. Ma lei, Marco, sapeva dell’autonecrologio? «Sapevo della sua esistenza, non il contenuto. Lo scrisse poco prima di morire. Nemmeno mamma l’aveva letto, almeno non credo. Ci sono cose dette e non dette e non è giusto rovistare nel dolore. Quella lettera è stata una scossa emotiva tremenda, un cazzotto di Cassius Clay in piena faccia. Ha organizzato il suo funerale, l’uscita di scena…. In realtà è vivo, a casa tutto parla di lui, non se n’è andato per niente».

Ma che padre è stato, giocava con voi quando eravate piccoli? «Pochissimo. Ricordo una partita a tennis…Una volta andò dal preside perché avevo 6 in condotta: disse, lo ammetta alla Maturità e lo bocci. Sono cose che ti restano dentro, il messaggio era: se riesci a resistere alla durezza (che lui aveva vissuto da piccolo), ti salvi. Era un atto d’amore. Papà lo dovevi decodificare». E sua madre, l’amata moglie Maria? «Aveva cinque figli: quattro reali, e poi papà, il bambino puro e impegnativo dalla profonda innocenza. Viveva nella sua bolla». Il mondo classico accademico all’inizio lo prese sottogamba. «A dargli coraggio fu il compositore Evangelisti: magari la sapessero scrivere gli altri la musica che scrivi tu. Papà non è solo il musicista dei cavalli western. Il carattere? Contraddittorio, compulsivo, esigente, aveva paura del mondo, il terrore che potessimo inciampare nella droga o in amici sbagliati».

Com’era negli ultimi tempi? «Diceva: io con le note so fare tutto. Adesso non ne ho più voglia. Dove si sentiva veramente libero era nella musica assoluta. Quando Toti, il presidente della Liguria, lo chiamò chiedendogli un brano per l’apertura del Ponte Morandi, dapprima bofonchiò. Poi mi chiamò: vieni subito a casa. Si mise al piano e suonò il pezzo, poi con mamma scrisse il testo».

L’oggetto più bello che ha voluto di Ennio? «L’orologio, lo tengo sempre accanto a me. La cosa più importante per papà era il tempo: della musica, della vita. Se a un appuntamento arrivavi con un minuto di ritardo ti azzannava».

Per l’anniversario, Roberto Prosseda, in digitale e il 2 luglio in cd, pubblica con Universal i brani scritti da Morricone per pianoforte solo: trascrizioni di temi da colonne sonore ad opera dell’autore, alternati a musica assoluta «per mostrare – dice il pianista – che l’artista e il modo di sviluppare i temi è unico. Mi spiace che la sua musica non da film venga poco eseguita».

C’è anche la prima registrazione del Quarto studio bis per piano e pedaliera «che mi dedicò, per uno strumento che esisteva già ai tempi di Mozart, è come se si suonasse due pianoforti in uno». Tante le sorprese, una è «il suono sporco ottenuto da un piano prototipo, perfetto per riprodurre strumenti insoliti e poveri non del tutto accordati che dovevano creare l’atmosfera torbida di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto».

Prosseda ne ricorda «la forte vita interiore che per pudore non voleva esternare. E la sua musica è proprio così. Una gabbia strutturata che protegge le sue emozioni, eppure così la passione, l’intensità, gli slanci della sua musica che bucano la pancia vengono fuori ancora di più»

Valerio Cappelli, corriere.it

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