GIANFRANCO ROSI NON CE L’HA FATTA: “FUOCOAMMARE È GIÀ UN SUCCESSO”

Come da previsione il film italiano è stato sconfitto da ‘O.J.: Made in America’, ma alla vigilia il documentarista si era raccomandato: “Se non vinco non parlate di delusione, essere qui è già incredibile”

gianfranco-rosiAlla vigilia degli Oscar si era raccomandato: “Se perdo domenica non parlate di delusione, non lo sarà. Tutto questo è già un successo”. Gianfranco Rosi in effetti l’impresa l’ha compiuta portando Lampedusa e il suo grido di dolore in cinquina, più di cinquant’anni dopo l’unico altro documentario italiano ad essere andato tanto lontano La grande Olimpiade, regia di Romolo Marcellini nel 1962 e pazienza quindi se la statuetta poi non è arrivata tra le sua mani nella notte più importante della storia del cinema. “Felicissimo di questo meraviglioso viaggio durato un anno incredibile. Il film documentario ha finalmente assunto un valore universale” ha detto Rosi alla fine della cerimonia.
La grande soddisfazione è proprio quella di essere entrato nel “ghetto” di un genere, quello del cinema non fiction, che dall’istituzione di un Oscar (negli anni Quaranta) ha aperto raramente le nomination a film non americani e infatti si contano sulle dita di una mano, in 70 anni di storia, i doc candidati a non vantare una produzione “made in Usa“. Anche quest’anno infatti Fuocoammare era l’unico titolo non americano e si scontrava con titoli molto importanti, sia a livello di contenuto che di investimento economico nella cosiddetta campagna degli Oscar; erano XIII emendamento (sulle condizioni nelle carcere degli afroamericani), della regista di Selma Ava DuVernay, I Am Not Your Negro di Raoul Peck (ispirato all’intellettuale afroamericano James Baldwin), Life, Animated di Roger Ross Williams (su un ragazzo affetto d’autismo che tramite i cartoon Disney è riuscito a comunicare) e infine O.J.: Made in America, regia di Ezra Edelman sulla storia dell’ex campione di football oggi in carcere per omicidio O.J. Simpson a cui – come da previsioni – è arrivata l’ambita statuetta.
Un doc italiano agli Oscar. Per Gianfranco Rosi quindi ritrovarsi nella cinquina è stato un risultato straordinario, che ha tirato una riga sulle polemiche scoppiate all’indomani della designazione di Fuocoammare come film italiano (nella categoria “non in lingua inglese”), designazione che aveva fatto dire al premio Oscar Paolo Sorrentino che il film di Rosi doveva essere candidato sì ma come documentario. Rosi ha raccontato poi però come la doppia candidatura negli Stati Uniti ha fatto clamore e probabilmente suscitato maggiore interesse sul film. Che dalla sua aveva già il grande sponsor di Meryl Streep, presidente di giuria a Berlino dove il film ha vinto lo scorso anno l’Orso d’oro iniziando un percorso che in dodici mesi lo ha portato a partecipare a 50 festival internazionali e ad essere venduto in 64 paesi. Il regista cinquantatreenne è riuscito nella sua carriera dedicata al cinema documentario a portare i film non di finzione dove non erano mai arrivati, come il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia e sebbene oggi la distinzione fra i generi si fa sempre più sottile ed è spesso fuorviante, nel caso di Fuocoammare (frutto di un anno di osservazione della vita a Lampedusa tra migranti e isolani) il lavoro di verità, di documento è quanto mai essenziale.
Lo stile Rosi. I lavori di Rosi sono frutto di un modus operandi del regista che fin dai primi titoli (Boatman del 1993 e Below Sea Level del 2008 sono appena stati restaurati dalla Cineteca di Bologna) ha caratterizzato lo stile del suo racconto. Il mediometraggio Boatman segue un barcaiolo indiano in una giornata tipica lungo le sponde del Gange mentre Below sea level racconta la vita dei ”pionieri” che senza luce, elettricità né polizia vivono nel deserto a 200 chilometri a sud di Los Angeles. Dopo aver realizzato El sicario – Room 164, film-intervista su un sicario messicano che aveva suscitato clamore all’epoca (2012) per il racconto di quest’uomo che nella vita aveva ucciso più di 200 persone e sul quale pendeva una taglia di 250 mila dollari, il primo film italiano del regista (nato in Eritrea dove ha vissuto fino ai dodici anni per il lavoro del padre): Sacro Gra si aggiudica, primo documentario nella storia di Venezia, il Leone d’oro.
Il film è il ritratto di una certa umanità che vive intorno al Grande raccordo anulare di Roma: un anguillaro che quotidianamente setaccia il Tevere con la sua barca e dispensa pillole di saggezza, un attore di fotoromanzi scelto per interpretare un maggiordomo, un nobile piemontese e sua figlia universitaria assegnatari di un monolocale impegnati in dialoghi forbiti, un palmologo in perenne lotta con i parassiti che gli stanno divorando le piante. Il film è il frutto di un lavoro di più di due anni durante i quali il regista ha vissuto a bordo di un minivan intorno al raccordo anulare. Per Rosi i suoi lavori sono vere e proprie immersioni nel mondo che vuole raccontare come l’anno trascorso sull’isola di Lampedusa. “Da Lampedusa è impossibile andar via, come anche stabilire il momento in cui è terminato il tempo delle riprese – ha scritto Rosi nelle sue note di regia – Se questo è vero per tutti i miei film lo è ancor di più per questo. C’è stato un evento che mi ha fatto comprendere che il cerchio in qualche modo si stava chiudendo. Avevo deciso di fare un film a Lampedusa dopo aver incontrato il dottor Bartolo, la sua umanità, la sua esperienza. Sentivo che era necessario per chiudere il film tornare a quell’incontro. Così è stato. Sono andato da Bartolo, ma con la camera, l’ho accesa e ho filmato la sua testimonianza, il suo racconto. Come accadde la prima volta, guardando il monitor del suo computer, dove è raccolto l’intero archivio di vent’anni di soccorsi, Bartolo è riuscito a trasmette con le sue parole, la sua umanità, la sua immensa serenità, il senso della tragedia e il dovere del soccorso e dell’accoglienza. Ecco, questo mi serviva per chiudere il film”.

Chiara Ugolini, La Repubblica

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