Barbora Bobulova si racconta

La sua vita è diventata un sogno triste. Una fiammata come popstar nei primi anni ’90 e poi è stata inghiottita nel nulla. Adesso canta in un locale di provincia col figlio chitarrista. Lui è Alessandro Piavani, lei è Barbora Bobulova e il film di Letizia Lamartire, in concorso a Venezia per la Settimana Internazionale della Critica, si intitola Saremo giovani e bellissimi. Le musiche e le canzoni originali sono di Matteo Buzzanca, autore della Sugar, etichetta discografica che per la prima volta si è lanciata nella coproduzione di un film. Barbora, 44 anni, slovacca naturalizzata italiana, interpreta una madre fragile, egocentrica, distratta, tra illusioni e rabbia represse.

È così?
«Sì, è anche una donna malinconica. Aspirava a diventare una grande artista e la carriera musicale le si è spezzata, si accorge che non era così brava. Mi sono ispirata a voci di quegli anni, Kim Wilde, Belinda Carlisle e Sandra».

La musica c’è nella sua vita?
«Sono un’autodidatta del pianoforte e nel film lo suono un po’. La mia figlia più grandicella, Lea, dice che vuole fare la contadina o la cantante. Che era uno dei miei sogni, anche se non ho una cultura musicale pazzesca. Ora sogno di fare la killer in un film d’azione, tipo “Nikita” e “Kill Bill”».

Fare i conti con la realtà e col proprio talento è più difficile per un’artista?
«Il cinema può portare alla frustrazione. Sei esposto, i ruoli belli sono pochi, puoi essere dimenticata da un anno all’altro. È come andare sulle montagne russe».

Lei però è un’attrice affermata.
«Ho avuto periodi con offerte che non mi entusiasmavano, ero depressa, non ho le spalle coperte, ho due figlie che vivono con me, sono single da cinque anni (però mi piacerebbe innamorarmi di nuovo), devo portare a casa la pagnotta. A volte devi fare compromessi, che non sono quelli delle molestie sessuali. Ho avuto una sola brutta esperienza, un regista voleva ripassare la mia parte nella sua stanza d’albergo. Gli ho risposto che potevamo rimanere nella hall».

È difficile parlare con serenità delle donne al cinema.
«È una definizione che non dovrebbe nemmeno esistere. Vorrei concentrarmi sulle battaglie per le pari opportunità».

Un mestiere da porte girevoli.
«Alcuni dei miei ruoli migliori dovevano andare ad altre attrici. “Cuore sacro” di Ferzan Özpetek, che mi è valso il David, doveva farlo Valeria Golino; “Scialla!” di Francesco Bruni era destinato a Ksenia Rappoport, trovai la sceneggiatura a casa e me ne innamorai. Il mio compagno di allora era assistente alla regia, Bruni mi disse di non aver pensato a me, aveva un’altra idea; la fiction su Coco Chanel fu del tutto fortuita».

È vero che rifiutò di fare la madrina alla Mostra del cinema?
«Ero spaventata, non amo portare la mia pelle in pubblico. È successo tanti anni fa. Col senno di poi, ho sbagliato».

Lei è in Italia da…
«Ventuno anni. Se sono diventata italiana? Non sono più così puntuale e ho una guida aggressiva. Ero spigolosa, ora mi riscopro morbida. È come se avessi una doppia identità. Eppure col passare del tempo vorrei recuperare le mie radici. Sono cresciuta sotto il regime comunista e qualcosa la rimpiango: la sicurezza sociale, il cibo che costava poco, la scuola gratuita, il lavoro assicurato. Non sono aspetti da sottovalutare. La libertà? Certo, ci mancherebbe, ma nelle limitazioni hai stimoli creativi. Però i miei genitori, entrambi ingegneri, qualche torto l’hanno subito, mio padre non aveva la tessera comunista e non poteva fare carriera. Comunque vorrei morire in Slovacchia».

Come affronterà la crisi delle rughe?
«Non vado nemmeno dall’estetista per la pulizia del viso! Credo nel mangiar bene, sono per invecchiare nel modo più naturale».

Una curiosità: quante volte sbagliando la chiamano Barbara?
Ride: «Ormai con ci faccio nemmeno più caso».

Valerio Cappelli, Corriere.it

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