Sanctuary il film raccontato dal regista Zachary Wigon

Due attori: Margaret Qualley e Christopher Abbott. Una sola location: una stanza di un albergo di lusso. Milioni di parole: quelle del copione scritto da Micah Bloomberg. Infinite sfumature: quelle dell’animo umano, dei giochi di ruolo e di potere che passano per il sesso così come per il denaro.


Questo, in estrema sintesi, è Sanctuary (sottotitolo italiano: Lui fa il gioco, lei fa le regole), il film diretto dal giovane Zachary Wigon che debutta il 25 maggio nei cinema italiani con I Wonder Pictures a qualche mese dalla presentazione in anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma 2022, dove il regista aveva accompagnato il suo film e aveva sfilato sul red carpet dell’Auditorium, e dove lo abbiamo intervistato.

Rebecca è una dominatrice, una professionista del sesso e Hal è il suo cliente, un ottimo cliente. Fa infatti parte di una ricca famiglia di cui sta per ereditare le fortune e non può più permettersi di avere una pericolosa relazione con una donna che conosce i suoi segreti e le sue perversioni. Così decide di vederla per un’ultima volta e dirle che tra loro è tutto finito, ma il suo tentativo di tagliare i legami gli si potrebbe ritorcere contro. Rebecca è tutt’altro che d’accordo e farà tutto il possibile per fargli cambiare idea.

Sanctuary è uno di quei film che, per le sue caratteristiche, avrebbe potuto essere una pièce teatrale. “Amo i film tratti da opere teatrali”, ci ha raccontato Wigon, “ma amo anche molto il dinamismo visivo al cinema, e non volevo che Sanctuary sembrasse teatro filmato, volevo anzi fosse stilisticamente aggressivo. Volevo che fosse simile a film come Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols e a Il servo di Joseph Losey”. In breve, Wigon cercava di fare di Sanctuary “un film vero, non un adattamento”. Tutto sul piano visivo doveva essere “efficace ma non troppo esuberante, per supportare le performance e il materiale. Nel film si alternano tante emozioni diverse e se tutto funziona in sceneggiatura e con attori devi solo tradurre quei beats in linguaggio formale, e cercare di rispecchiare a livello visivo il senso di disorientamento che loro vivono”.
Una vera e propria sfida, quella di Wigon, considerato che tutto il film è ambientato dentro una stanza d’albergo e che le riprese sono durate soli 18 giorni. “Dovevamo essere sicuri di avere tutto quello che serviva prima di andare al montaggio, e per farlo abbiamo fatto un grande e fondamentale lavoro di previsualizzazione con un software che si chiama Cinetracer. Alla fine quello che il direttore della fotografia ha dovuto fare è stato montare una lente sull’iPhone, e poi lavorare seguendo quanto avevamo stabilito”.

Nel corso dei 97 minuti di Sactuary, i due protagonisti ribaltano di continuo i loro ruoli, realtà e finzione si alternano e sovrappongono in quello che i materiali ufficiali del film definiscono “un perverso gioco al massacro che non conosce attimi di tregua”, nel corso del quale “Rebecca e Hal si troveranno pericolosamente invischiati nell’estremo tentativo di conquistare il potere e avere il controllo dell’avversario”.
“Per me era interessante lo spettro di comportamento dei personaggi, la loro psicologia e quello che piano piano il film rivela”, ha spiegato Wigon. “Volevo costruire una storia che mostrasse la realtà del comportamento umano, che andasse in profondità da questo punto di vista senza fermarsi alle apparenze”.
In particolare, due cose sono state molto interessanti per Wigon: “Da un lato c’è Hal, che prova disgusto per sé stesso, e trovavo stimolante esplorare il conflitto che prova di fronte a qualcosa che gli provoca piacere e vergogna allo stesso tempo; dall’altro c’è Rebecca, che ama il gioco, ama interpretare un ruolo ma soprattutto ama il potere, e allora andare a vedere come questo potere poteva esserle strappato via. Un potere che”, ha aggiunto il regista, “nello spazio degli scenari ha lei, ma che nella realtà possiede lui per via del capitale”.
Ovviamente, in un film di questo genere, fondamentali è stato il supporto degli attori. “Margaret sembra una chitarra elettrica”, ha detto Wigon, “sa fare effetti diversi e sa cambiare stile molto rapidamente; Christopher sa suggerire molte emozioni diverse che stanno dentro di lui mentre all’esterno ne mostra una sola, e diversa da quelle. Non abbiamo provato molto”, ha concluso Wigon, “mi piace scoprire le cose sul set durante le riprese, penso sia bello che un attore si senta fare un salto nel vuoto quando stanno per girare”.

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