I 70 ANNI DI ELTON JOHN: QUELLA NOTTE IN CUI UN RAGAZZO DIETRO AL PIANO CONQUISTÒ IL MONDO

Il 25 marzo Reginald Kenneth Dwight, in arte Elton John, compie 70 anni. Introverso e infantile in pubblico, esibizionista e selvaggio sul palco, fanatico della musica fin da bambino, non immaginava che il suo deElton Johnstino sarebbe cambiato in un’afosa serata del 1970. Prima ancora di essere nominato Sir e finire sulle pagine dei tabloid per i motivi sbagliati

Los Angeles, 25 agosto 1970. “Chi mi accompagnerà in chiesa/ Quando avrò 60 anni/ Quando il cane cencioso che mi hanno dato/ Sarà nella tomba da dieci anni?”. Il Troubadour, il nightclub da 300 posti a sedere di Los Angeles di proprietà di Doug Weston sul Santa Monica Boulevard, al confine con Beverly Hills, è immerso nel buio. Il silenzio è irreale. Dopo un minuto di assolo di pianoforte, uno Steinway & Sons a coda nero, improvvisamente la voce. Il ragazzo dai capelli corti, già stempiato, barba e occhiali da vista con le lenti scure, ha solo 23 anni ma il terzo brano del suo concerto di debutto negli Stati Uniti, quel pezzo con lunghe parti strumentali, grave e solenne, sembra uscito dalla testa di un uomo che ha già vissuto mille vite. La canzone si intitola Sixty Years On, è estratta dal suo secondo album omonimo, il primo a essere pubblicato in America. Il testo l’ha scritto il paroliere ventenne Bernie Taupin, conosciuto nel 1967 dopo aver risposto a un annuncio della Liberty Records apparso sul settimanale musicale New Musical Express, che rimarrà al suo fianco per sempre. Immagina un futuro desolato, ed è una riflessione sullo scorrere del tempo e sulla vecchiaia, trascorsa in solitudine. Il nome del pianista è Elton John. Con lui, sullo striminzito palco di legno, c’è una formazione atipica di due elementi: Nigel Olsson, 21 anni, alla batteria e Dee Murray, 24 anni, al basso. Non c’è nessuna chitarra elettrica ma il suono amplificato che investe il pubblico è scarno, potente. La definizione di quel rumore primordiale è indicato, in rilievo, sulla maglia del giovane dietro al piano. Dice: ‘Rock ‘n’ Roll‘.
Oggi Reginald Kenneth Dwight, la superstar che tutti conosciamo come Elton John, è famoso in ogni singolo angolo del pianeta. Figlio unico, è nato a Pinner, nei pressi di Londra, il 25 marzo di 70 anni fa da Stanley Dwight, un pilota della Royal Air Force, e da Sheila Eileen Harris, una casalinga. Ma se è vero che pochi altri hanno mantenuto la barra del successo così alta per 50 anni consecutivi, sono ancora di meno coloro che possono indicare con precisione il momento in cui la scintilla ha incendiato il mondo. Elton John è diventato Elton John, il magnifico compositore di piccoli e grandi capolavori della musica del Novecento, esattamente qualche minuto prima delle ore 22 del 25 agosto 1970. A gran voce, in scena al Troubadour, il club che per sei sere di fila, dal 25 al 30 agosto, avrebbe ospitato il suo primo tour in America, un annuncio: “Gente, non l’ho mai fatto prima, per cui siate gentili con me. Sono esattamente come voi. Sono qui perché ho ascoltato il disco di Elton John. Così ora raggiungerò il mio posto, in vostra compagnia, e mi godrò lo spettacolo”. A parlare è Neil Diamond, un rispettato compositore che alle spalle vanta già una nutrita serie di hit. Come altri illustri ospiti presenti nel locale era rimasto colpito dal disco omonimo di quel ragazzo che fuori dai riflettori non sembrava affatto una rockstar. Diamond era stato istruito da David Rosner, il manager locale incaricato della Dick James Music, l’etichetta che in Gran Bretagna aveva lanciato Elton John nel 1969 con un primo lavoro, Empty Sky, rifiutato dal mercato statunitense. Russ Regan, il presidente della UNI Records, la divisione della MCA che negli Stati Uniti aveva appena pubblicato l’album Elton John, non rimase impressionato da quell’esordio discografico. Il giorno in cui gli arrivò l’lp in ufficio lo mise sul piatto, si sedette e ascoltò quattro pezzi. Poi, ad alta voce, disse: “Non credo sia roba per noi. È troppo introversa”. La reazione fu opposta quando sentì Elton John. In verità, suonava ancora più oscuro e riflessivo del suo predecessore, soprattutto per via degli elaborati arrangiamenti orchestrali firmati da Paul Buckmaster che gli donavano un’aura barocca, magniloquente. Se l’avessero suonato in qualche monastero, a parte quel brano – No Shoe Strings on Louise, un omaggio a Mick Jagger il cui testo raccontava di una donna che andava in chiesa a pregare Lucifero – probabilmente nessuno avrebbe avuto nulla da ridire. “Quando sentii quel disco per la prima volta”, ha ricordato Regan, “ho letteralmente perso il controllo. Mi sono rivolto al cielo e ho esclamato: ‘Grazie, Dio!'”. Ho pensato di aver ascoltato il miglior album della mia vita. Ho convocato immediatamente in ufficio tutto lo staff: ‘Lasciate perdere qualsiasi lavoro state facendo’, gli dissi. Poi chiesi a ognuno di mettere le cuffie e ascoltare. Quella è stata la prima e unica volta che ho fatto una cosa del genere”.
Prima si entrare in scena, Diamond aveva timidamente detto a Rosner che per accontentare le sue richieste avrebbe dovuto almeno domandare a Elton John se avesse voluto quel tipo di presentazione da parte sua. Non era certo che lo stimasse. Un paio di giorni prima dello show, Elton e qualche altro membro dell’entourage era stato invitato, per una visita informale, a casa di Diamond, nel Coldwater Canyon: “Si è seduto in salotto tenendo il berretto in grembo. Era estremamente tranquillo e timido”, racconta Diamond. “Mi sono detto: ‘Questo ragazzo non ce la potrà mai fare’. Dopo averlo introdotto al Troubadour mi sono seduto accanto a Regan, tra il pubblico. Quando Elton ha calciato via lo sgabello del piano e ha cominciato a suonare e cantare come avrebbe fatto Jerry Lee Lewis, ho capito che mi ero sbagliato. Ho iniziato a incoraggiarlo con talmente tanto entusiasmo che ho rovesciato il mio drink”. Visto l’aspetto fisico di Elton John, il pubblico credeva avrebbe assistito a un’esibizione intimista e austera, sostanzialmente acustica, un po’ come sul disco. Il suo viso, illuminato per metà, che sbuca dall’ombra sulla copertina di Elton John faceva pensare a tutto tranne che a un concerto trascinante. “La gente si aspettava qualcosa in stile James Taylor”, ricorda Regan, “in compenso si sono trovati di fronte un incrocio tra Jerry Lee Lewis e Leonard Cohen. Qualcuno con una grande profondità, ma anche un grande senso dell’entertainment”.
Elton John has arrived. Norm Winter, l’addetto alle relazioni con la stampa della UNI Records, ha organizzato qualcosa che secondo il suo personalissimo senso di grandeur doveva essere un magnifico gesto di accoglienza dell’America nei confronti di quel gruppo di pallidi inglesi. Venerdì 21 agosto 1970, dopo dodici ore di viaggio in classe economica sul volo Boeing 747 della Pan American che da Londra era partito in direzione Los Angeles, Elton John e il suo entourage di otto persone non vedevano l’ora di finire in una comoda camera d’hotel con l’aria condizionata. Ad attenderli, però, non trovarono una macchina ma un autobus a due piani rosso fiammante, in onore di uno dei molti cliché britannici. Sulla fiancata c’era una scritta enorme che utilizzava gli stessi caratteri del nuovo album: ‘Elton John è arrivato’. “Non ho proprio idea. Nessun indizio”, ha recentemente spiegato David Larkham, l’art director parte dell’entourage che, nel 1973, avrebbe realizzato con l’illustratore Ian Beck l’artwork per il doppio capolavoro di Elton John, Goodbye Yellow Brick Road. “Pensavamo avremmo preso dei taxi verso l’hotel. Ma quella cosa… fu un vero ‘bonus'”. Norm era particolarmente fiero della sua trovata, tanto da chiedere a chiunque cosa ne pensasse. “Hey, hai sentito del bus?”: andava in giro freneticamente a domandarlo a chiunque, incluso il giornalista di Rolling Stone, David Felton, che era stato incaricato di scrivere il primo grande servizio sul promettente cantante. “Elton ora è in giro per la città. Il ragazzo è fantastico. Non riesce a credere a quello che gli sta accadendo. Comunque, senti questa: abbiamo preso per lui un autentico bus inglese. Non ti sto prendendo in giro. Lo ha fatto andare fuori di testa. Gli è davvero piaciuto”. Le cose, tuttavia, erano andate un po’ diversamente. Elton John non era neppure contento di essere lì, a Los Angeles. Si era lamentato, con la casa discografica inglese, per avere detto sì a quell’ingaggio. Per lui era troppo presto partire on the road e avventurarsi negli Stati Uniti, prima di essersi almeno assicurati di aver fatto breccia nel mercato in patria. L’unica cosa che lo aveva allettato tanto da accettare era stata l’opportunità di visitare i grandi store musicali che per lui rappresentavano un sogno, come il mitico Tower Records. “Norm Winter… il nome dice tutto, non è vero?”, confidò poi Elton con una smorfia parlando con Felton. “Ha veramente lavorato durissimo. Tutti i negozi che ho visto a Los Angeles avevano esposto in vetrina il disco, anche se lo spazio era comprato… Ecco… ci hanno provato. Ma quel bus… L’ho trovato estremamente imbarazzante. Ognuno di noi cercava di accovacciarsi per nascondersi al di sotto dei finestrini. Non so, mi è sembrata una trovata misera. Non potevo crederci, non credevo stesse accadendo. Voglio dire, sono un grande ammiratore delle cose fatte con stile… e i bus a due piani non rientrano in queste. Ma è la mia prima volta, qui, e non posso essere scortese con le persone. Preferisco affrontare le situazioni, del tipo ‘soffrire dentro e stringere i denti e sopportare’, piuttosto che essere stronzo”. Ma non era finita. Il bus, prima di arrivare in hotel, fece prima tappa al Troubadour per mostrare a tutti la magnificenza del locale dove, nonostante tutto, si sarebbe fatta la storia. Sembrava un concessionario di auto usate, ma senza grandi vetrate scintillanti
Hold me closer, Tiny Dancer. Nel pieno dell’estate californiana, la giovanissima ballerina Maxine Feibelman non solo è testimone di una piccola, grande rivoluzione del rock ‘n’ roll ma vede sconvolta anche la propria modesta vita. Con 36 ore di tempo libero prima del concerto, il team della UNI cercò qualcosa da fare alla Elton John Band. Fu un incidente, o quello che si può chiamare un fortuito caso della vita, a cambiare tutto. Nigel Olsson, l’unico musicista del gruppo a portare i capelli lunghi, ha bisogno di un phon. Il talent scout Ray Williams, davanti al quale il giovanesi era presentato tre anni prima, varcando le porte della Liberty Records dopo aver letto un annuncio per la ricerca di nuovi talenti, chiama al telefono una sua ex fidanzata per risolvere la situazione. Non la trova. In compenso, dall’altro capo risponde la sorella. È in compagnia dell’amica Maxine e, insieme a lei, correrà in aiuto di Williams con un asciugacapelli. Quando Bernie Taupin la incontra, rimane folgorato. Si sposeranno l’anno successivo e, nonostante il matrimonio sarebbe durato soltanto un lustro, sarà lei il volto femminile che più di ogni altro rimarrà impresso nell’immaginario collettivo legato alle canzoni di Elton John: Maxine è la “piccola ballerina” che ha ispirato uno dei pezzi più poetici della coppia John-Taupin, Tiny Dancer, la “Bimba con i blue jeans/ Donna di L.A. / Dagli occhi graziosi/ Sorriso da pirata”. Maxine rimane con Taupin per tutto il tour e, oltre che a improvvisarsi, all’occorrenza, sarta nei camerini, troverà anche una soluzione a un dilemma che affliggeva Elton John fin dal momento in cui aveva saputo di dover partire per l’America: cosa indossare in scena? Nel giro di due mesi, dopo quei folgoranti sei concerti al Troubadour, sarebbe tornato in California e sulla Costa Orientale. Lo aspettava Boston, Philadelphia, San Francisco, New York, Chicago, Detroit, San Bernardino e una serie di città cardine. Quasi scherzando, ma non troppo, Maxine gli portò un paio di collant viola: “Ooh, ho trovato queste, scommetto che non avrai il coraggio di indossarle sul palco!”. Gli porse anche una maglia del Fillmore West, il locale di San Francisco. “Alcune cose, viste oggi”, racconta Elton in un’intervista rilasciata nel 1990 per le note del box set celebrativo To Be Continued…, “penso di averle portate troppo all’eccesso”. Ma non era così, era terribilmente divertente. Ed era quello che dev’essere il rock ‘n’ roll: sospiri, grida e sudore. Naturalmente Elton indossò le calze e sul palco del Civic Auditorium di Santa Monica, il 15 novembre 1970, fece un vero e proprio strip-tease: “Avevo quattro strati di abiti addosso e gli stivali argentati con delle stelle. Un berretto, con in cima un cappello a cilindro. Poi me lo sono levato, insieme a una tuta. Ho tolto anche quella e sotto ne avevo un’altra, ancora diversa. Mi sono spogliato del tutto e sono rimasto con la maglia del Fillmore West e i collant viola”. Mentre cantava, sul finale, Burn Down the Mission, fece rotolare via lo sgabello del piano con un colpo di tacco, spinse le gambe in verticale facendo leva con le mani pressate sopra la tastiera, rimbalzando più volte, come una molla rotta. Quella sera c’erano le telecamere. L’esibizione era stata ripresa per l’Henry Mancini Show, che all’epoca era molto popolare. Pare che dietro la console fossero scandalizzati e che qualcuno volesse fermare le riprese. Oltre il palco, a un certo punto, si sentì un gran vociare: “Oh mio Dio, che cosa sta facendo!? Sarà un disastro!”. Il pubblico, per dirla con le parole di Elton, “era andato fuori di testa”.
Il 24 agosto, alla vigilia del debutto a Los Angeles, la casa discografica aveva organizzato per la band un altro bel gesto d’accoglienza. Un viaggio, questa volta in limousine, a Disneyland. Con un pass vip dall’accesso illimitato, per tutto il giorno Elton John e compagni hanno potuto saltare la fila di ogni attrazione, pranzando poi presso il prestigioso ristorante, almeno secondo gli standard americani, Blue Bayou. Il batterista Nigel Olsson ricorda: “Il giorno dopo Elton entrò negli spogliatoi del Troubadour con in testa delle enormi orecchie da Topolino, con indosso i suoi grandi occhiali. Ci disse che quella sera le avrebbe messe. Non pensavamo fosse serio, ma diamine se lo era! Venne giù il diluvio. Dee (Murray, il bassista, ndr) e io a un certo punto abbiamo fatto fatica a suonare, per quanto ridevamo”. Oltre alle orecchie, Elton aveva un paio di pantaloni aderenti. Cortissimi. Per qualche motivo la UNI aveva fatto pressione perché il nome di Elton John fosse messo in cima ai manifesti, sopra a quello del cantautore americano David Ackles, visionario, teatrale e soprattutto allora ben più noto. Elton avrebbe aperto lo spettacolo. Il programma della serata diceva: ‘A Night at the Troubadour: Presenting Elton John and David Ackles’. “La situazione era talmente folle”, ricorda Elton. “Durante l’intero pomeriggio gli addetti della casa discografica ci venivano a dire frasi del tipo: ‘Dai, amici, succederà tutto stasera, sarà una notte da lavaggio del cervello!’ Non capivamo: perché quelle persone facevano la fila per dirci cose del genere?”. Prima del concerto, Elton aveva avuto il coraggio di bussare alla porta del camerino di Ackles. Portava la stessa salopette con cui era sbarcato a Los Angeles, con una toppa di Donald Duck sul petto. Voleva dirgli quanto ammirava le sue opere e quanto fosse onorato si poter dividere il palco con lui. La storia decise che il lavoro più influente di Ackles, intitolato American Gothic, venisse prodotto dal paroliere di Elton, Bernie Taupin. Era il 1972.Nei giorni che seguirono il concerto, il vero trionfo si consumò sulle pagine dei giornali. I titoli annunciavano l’arrivo di un ‘nuovo messia del rock’. Lo spettacolo aveva una scaletta di dieci pezzi incentrata sul disco Elton John e includeva, oltre alla già nota Your Song, anche due cover, Honky Tonk Women dei Rolling Stones e, sul finale, Get Back dei Beatles in un medley con Burn Down the Mission lungo 25 minuti. La canzone, ambientata nell’America della corsa all’oro, è un torrenziale country rock sull’epopea di una comunità oppressa che vuole ribellarsi al padrone, ed è estratta dall’album di imminente pubblicazione, Tumbleweed Connection. “Non potevo crederci, il pubblico alla fine ci ha assediati”, ricorda Elton parlando con il giornalista Paul Gambaccini. “La seconda sera Leon Russell era seduto davanti a me. Non l’ho visto prima dell’ultimo pezzo. Grazie a Dio, perché mi sono nutrito per anni della sua musica. Quando mi sono accorto di lui, sono rimasto immobile per un momento. L’ho sentito dirmi ‘vai avanti!’, poi mi ha gridato qualcos’altro”. Più tardi, nel backstage, Russell lo invita a casa per fare due chiacchiere. L’appuntamento è per il giorno dopo. “‘Ecco, ci siamo’, ho pensato”, spiega Elton, “adesso mi legherà a una sedia, mi frusterà e dirà: ‘Ascolta qui, tu, bastardo, è così che si suona un piano’. Invece fu molto carino e in quel momento si concretizzò la fantasia di uno scolaretto”. Tra il pubblico sedevano anche Mike Love dei Beach Boys, Gordon Lightfoot e non solo: “C’era anche Quincy Jones e doveva aver portato la sua famiglia intera, ha 900 figli… Continuavo a stringere mani. Quella settimana al Troubadour avrebbero dovuto battezzarla ‘il milione di strette di mano'”.
These are your songs. Quando la Elton John Band torna negli Stati Uniti, tra il settembre e il dicembre dello stesso anno, per il secondo tour, le cose sono decisamente cambiate. Le due date del 20 e 21 novembre 1970 al Fillmore East di New York, il locale vicino all’East Village di proprietà dell’impresario rock Bill Graham, sono tutte esaurite. Elton, stavolta, divide il palco con il suo idolo, Leon Russell, e McKendree Spring, una band folk progressive che si sarebbe sciolta di lì a poco. Entrambe le sere, nel pubblico, c’è un ospite molto speciale: Robert Allen Zimmerman. È in compagnia della moglie Sara e di The Band, il gruppo con cui il paroliere Bernie Taupin è cresciuto e che ha ispirato i testi di Tumbleweed Connection. Per la stampa l’occasione è ghiotta. Nell’edizione del 28 novembre 1970, il Melody Maker titola in copertina, a caratteri cubitali, ‘Dylan digs Elton!’, ‘Dylan si gode Elton!’. Elton John è alle stelle. Anche se gli Stati Uniti non avevano voluto il suo primo album, Empty Sky, il pubblico a cui era abituato in Gran Bretagna, dove aveva cominciato a suonare nei pub e poi nei piccoli club con la band Bluesology, era sempre stato tiepido nei suoi confronti. Sono inglesi, dopotutto. L’opposto rispetto all’esaltamento senza freni degli americani: “Hanno applaudito fin dal primo istante”, ha raccontato un Elton entusiasta al giornalista David Felton in occasione della sua prima copertina su Rolling Stone, uscita il 10 giugno 1971. “Non potevo crederci, cazzo! Una cosa del genere in Inghilterra non succede. Le persone, qui, sono assurde!”. C’è una fotografia firmata da Ed Caraeff che svela tutta la contraddittorietà di Elton John, il mistero e la magia di quei momenti e del personaggio, di quello che era allora e di quello che sarebbe diventato. È seduto nello spartano backstage del Troubadour, la schiena poggiata al muro di mattoni a vista dipinti di bianco, circondato da tubature scrostate. Guarda appena l’obiettivo. È da solo, non sorride. “Non ho tempo per gli affari di cuore. Ti svegli al mattino e, se hai un giorno libero, finisce che il telefono squilla: ‘Puoi venire in ufficio? C’è qualcosa di cui vorrei parlarti’. Il tuo avvocato ti chiamerà, tanto per iniziare, o il tuo contabile, o il tuo manager, o il tuo addetto stampa. Poi avrai gli affari giornalieri di cui occuparti, come ad esempio la macchina che non parte. O il fornello che esplode. È incredibile quanto le cose, nella vita, possano andare storte”. Pausa. Continua: “Non voglio essere una grande star”, spiega diventando serio. “Non posso sopportare quell’aspetto dell’essere musicista. Ciò che voglio fare è soltanto suonare qualche concerto alla settimana e isolarmi, comporre e basta; e la gente dirà: ‘Oh, Elton John? Scrive buona musica. E questo è tutto'”. La pubblicità della UNI Records nel programma del doppio show del 20 e 21 novembre al Fillmore East di New York recitava: “Quando Elton John ha suonato la sua musica in California, in settembre, le emittenti radio hanno comprato intere pagine di pubblicità solo per dire ‘grazie’. Chi è Elton John? Chi siete voi? Alcune risposte a queste domande sono contenute nelle canzoni di Elton John. Altre sono contenute nella vostra testa. Elton John è un Englishman che compone bella musica. Voi siete probabilmente persone che vogliono ascoltare bella musica. Quando entrambi vi troverete insieme, saprete che cosa è successo in California”.
Due anni dopo. Nell’estate del 1973 Elton John è un milionario che viaggia su un aereo privato, ha già alle spalle tour mondiali che fanno il tutto esaurito, un bel po’ di lp dentro i quali si fatica a trovare qualcosa di davvero stonato ed è in procinto di pubblicare il primo doppio disco, il disco che porterà la sua forma-canzone pop ai massimi livelli: Goodbye Yellow Brick Road, quello di Candle in the Wind, di Bennie and the Jets e Saturday Night’s Alright (For Fighting), solo per citare le hit. Indossa mantelli d’argento, boa di struzzo, costumi tempestati di lustrini e stivali con le zeppe alte 20 centimetri. Per la sua seconda grande intervista su Rolling Stone parla con Paul Gambaccini. La rivista esce il 16 agosto 1973. In copertina c’è un disegno dell’illustratore Kim Whitesides, mentre nel servizio interno le immagini sono firmate da una fotografa di 23 anni. Il suo nome è Annie Leibovitz. Elton ha già cominciato a indossare gli occhiali stravaganti che sarebbero diventati un suo marchio di fabbrica. Nello scatto che apre l’articolo si vede solo il suo ghigno con i grossi incisivi in primo piano, mentre un paio di giganteschi occhiali sagomati con la scritta ELTON, illuminata da led, gli copre quasi completamente il volto. Durante la conversazione, Elton riflette su quello che è stato e si rivede nella foto di copertina apparsa su quel vecchio numero di Rolling Stone, quello del 10 giugno 1971, che raccontava di un giovane che con un solo concerto aveva conquistato gli Stati Uniti. Ha ai piedi il paio di stivali argentati con le stelle cucite sopra. Il tacco è di pochi centimetri. Scoppia in una risata fragorosa, punta il dito sulla rivista: “E io che pensavo fossero davvero alti. Credevo fossero scarpe alla moda perché avevano tacchi alti. Merda! Sono alto 1 e 73, odio essere basso. Mi sento così piccolo, non indosso mai calzature senza tacco. Porto raramente scarpe da tennis. Ma sono sicuro che in futuro lo farò”. Rimane in silenzio. Ricomincia a parlare: “Probabilmente tra un po’ mi ritirerò. Per dire, nel giro di un paio d’anni guarderò una mia foto con le zeppe e dirò: ‘Che diavolo stavo facendo?'”. La risposta è nelle sue canzoni.

di VALERIA RUSCONI, La Repubblica

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