JARMUSCH: «LA FELICITÀ È LA STAGIONE DELLE CILIEGIE CHE TORNA OGNI ANNO»

L’inno alla vita del regista di «Paterson»: «Detesto Trump ma questo non c’entra con la mia arte, in quello che faccio metto i sentimenti più che la politica»L’inno alla vita del regista di «Paterson»: «Detesto Trump ma questo non c’entra con la mia arte, in quello che faccio metto i sentimenti più che la politica»

jarmuschNel suo riuscito film Jim Jarmusch racconta una settimana nella vita di un autista che si chiama Paterson, vive a Paterson (New Jersey) e adora il poema Paterson di William Carlos Williams. Il film si chiama Paterson.
«Una cosa scema, in effetti — dice Jarmusch di ottimo umore in un albergo del Marais —, e non è l’unica, il momento più drammatico del film è quando si guasta l’autobus, ti lascio dire… È una cosa ridicola, lo so».
Ma nessuno stava dicendo questo…
«Lo dico io, ne sono consapevole. C’è questa abbondanza di Paterson perché ci sono andato per la prima volta vent’anni fa, un posto a due passi da New York di cui nessuno parla mai. Mi sono seduto davanti alle cascate nello stesso punto di Adam Driver (Paterson) nel film e sono andato in giro per le fabbriche. E ho letto l’inizio del grande poema Paterson, e mi è piaciuta la metafora della città come un uomo. Mi è rimasta piantata in testa e quando ho fatto il film l’ho usata chiamando il protagonista come la città».
Felicità nelle piccole cose?
«Nel film ogni giorno è una piccola variazione del precedente. E la felicità per me è che la stagione delle ciliegie ritorna ogni anno. Ma Paterson non è un autoritratto, lo dicono di tutti i miei film ma non è mai così. I film sono come i figli, hanno il tuo Dna ma anche una vita autonoma. Per esempio, a me la routine non piace, a Paterson sì».
Paterson e Laura fanno una vita apparentemente banale, ma piena di eventi, per quanto piccoli.
«In passato ho fatto alcuni film che parlavano di outsider contro il sistema ma Paterson e Laura no, loro vanno con la corrente, sono working class ma anche creativi e poeti. Ho studiato tai chi per qualche anno e il mio maestro mi diceva sempre: non giudicare mai dalle apparenze, puoi sembrarti una vecchietta e magari ti mette ko».
Perché l’autobus?
«Perché attraversa la città dall’alto, mi piace molto scrivere negli autobus, il mondo all’esterno è come una scena teatrale che si muove, e dentro succedono cose, conversazioni, gente che parla, beve, legge, parla al telefono».
C’è un valore politico?
«No, detesto Donald Trump e ho votato per Bernie Sanders ma questo non c’entra con la mia arte, non mi piace essere didattico, in quello che faccio metto i sentimenti più che le idee politiche. Paterson non è un film con un messaggio, non ho niente da insegnare a nessuno, sono solo un osservatore».
È un film senza cattivi.
«Volevo andare oltre i cliché. Quando arriva l’auto con i ragazzi che sembrano far parte di una gang, e chiedono a Paterson informazioni sul suo cane, non volevo che la scena finisse con loro che gli rubano il cane. Quando giravamo Ghost Dog a Jersey City eravamo nel territorio di una gang, così sono andato a parlare con loro, gli ho spiegato quel che volevamo fare, e loro mi hanno detto “tranquillo, ti proteggiamo noi”. In quella scena c’è un po’ di quello spirito. Paterson parla con tutti».
Adam Driver è diventato celebre con Guerre Stellari.
«Che cos’è Guerre Stellari? Una serie forse? Va bene lo so, lui è l’attore che interpreta Kylo Ren ma io l’avevo scelto prima, mi era piaciuto in A proposito di Davis dei fratelli Cohen e in Frances-Ha di Noah Baumbach».
Paterson si chiama come la città. E la sua amata Laura (Golshifteh Farahani, ndr)? Da dove viene il nome?
«Ho pensato che Laura, il nome della musa del Petrarca, andasse bene per la moglie del mio poeta».

di Stefano Montefiori, Il Corriere della Sera

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