Alessio Boni: «Un registro degli attori per aiutarci a uscire dalla crisi»

«Questa pandemia ci ha costretto a fermarci. A riflettere sulla categoria, a mettere da parte l’ego e a parlare del noi».

Alessio Boni, lei è uno degli oltre duemila attori che per questo si sta occupando del registro…
«Si registro, attenzione, non un albo».

Un auto censimento degli attori e delle attrici. A cosa serve?
«A dare dei parametri concreti e reali per definire la professione di attore. Ma lo sappiamo cosa è successo con i bonus da 600 euro dello scorso lockdown?

Cosa è successo?
«Hanno presentato domanda per il bonus 73 mila persone: come requisito veniva chiesto di aver lavorato sette giorni come attore. Un’assurdità: l’attore è un mestiere discontinuo e così molti professionisti sono rimasti esclusi».

Quanti sono i veri attori italiani invece?
«È tanto se arrivano a diecimila. E il paradosso dello scorso lockdown è che molti di loro non sono riusciti ad avere il bonus».

Quali sono i requisiti che nel registro definiscono gli attori e le attrici?
«Se ti vuoi iscrivere nel registro devi avere almeno 150 giorni lavorativi con contributi nell’ambito teatrale, oppure 50 giorni lavorativi nell’audiovisivo, o ancora devi aver frequentato una scuola di tre anni riconosciuta dallo Stato».

Avete alzato l’asticella rispetto ai criteri dello scorso lockdown...
«In realtà no perché noi ci riferiamo allo storico e non allo scorso anno. Un attore professionista non si può giudicare dagli ultimi dodici mesi. Abbiamo individuato i giusti parametri che spero vengano presi in considerazione al di là della proposta di legge firmata da Marianna Madia, da Debora Serracchiani e da Flavia Piccoli Nardelli».

La proposta di legge che riconosce la qualifica dell’attore è stata calendarizzata alla Camera.
«Si in Settima commissione, quella della Cultura».

Prima che l’approvino ci vorrà del tempo…
«Per questo spero che prendano in considerazione i parametri del registro così da poter avere una distribuzione che abbia una logica concreta. Durante questa pandemia sono nate tante associazioni, c’è “Unita”, in prima linea, dove ci sono mille attori che dialogano con tutte le istituzioni e qualche risultato è stato già raggiunto. Ma ci sono tanti attori che dal 22 febbraio non hanno ancora visto nemmeno un euro».

Davvero?
«Bisogna conoscere le situazioni per capire. Ci sono attori e attrici che hanno dovuto lasciare le loro case perché non riuscivano a pagare l’affitto e si sono riuniti insieme per cercare di sopravvivere. Dobbiamo capire che questo non è un mondo dorato. Dietro ad un attore famoso ce ne sono dieci sconosciuti e bravissimi. Ma fino ad oggi questo non è stato capito».

Che cosa non è stato capito secondo lei?
«I criteri che vengono scelti per gestire da parte delle istituzioni la professione dell’attore non corrispondono alla realtà del mestiere. Vogliamo fare un esempio?».

Facciamo un esempio…
«La pensione. Per poter prendere una minima, un attore deve lavorare 120 giorni in un anno per venti anni. È un criterio che non ha senso. Perché nemmeno l’attore più in auge riesce a lavorare 120 giorni in un anno».

No?
«No. Prendiamo un attore famoso che gira tre film in un anno: se gli vengono riconosciuti come lavorativi 30 giorni per film è tanto. Il lavoro che viene considerato è soltanto quello in scena. Vale così anche per il teatro».

Non considerano le prove come lavoro?
«No, anche se per le prove a volte lavoriamo anche dodici ore al giorno. È per questo che le casse dell’ex-Enpals, l’ente che eroga le nostre pensioni, scoppiano».

Alessandra Arachi, corriere.it

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