Orfeo, andata (e ritorno) dall’Inferno

All’Opera di Roma un’eccellente produzione del capolavoro di Gluck

Curioso, però: il teatro italiano che ti dà di più l’impressione di essere in Europa (precisiamo a scanso di polemiche: quello che la dà di più, non l’unico) è l’Opera di Roma, cioè quello che è stato a lungo il più bolso e provinciale. Dunque, anche da noi un teatro musicale moderno «Si-può-fare!», come strillava Gene Wilder in Frankenstein Junior, solo che qui a urlarlo dovrebbe essere Carlo Fuortes, il sovrintendente. Ancor più interessante, che il pubblico ci stia, nel doppio senso della presenza fisica in teatro e dell’accettazione di titoli e modalità esecutive ritenute, in Italia, altrettanti baci della morte.

Prendete per esempio Orfeo ed Euridice di Gluck, non esattamente l’autore che smuove le folle, con la regia di Robert Carsen, genio riconosciuto in tutto il mondo sul quale le nostre care salme storcono il nasino (vuoi mettere Zeffirelli o Pier’Alli?), un direttore barocchista come Gianluca Capuano e addirittura, audacia massima, un protagonista controtenore. Si poteva temere il «forno». E invece il pomeriggio di domenica 17 il teatro era pieno, e non solo dei soliti reperti archeologici da matinée operistica italiana, ma anche, udite udite, di «gggiovani» veri, intendo under 40, alcuni dei quali, dislocati a tribordo da me, disquisivano delle ultime new entry di registi e direttori e cantanti da seguire, aggiornatissimi e informatissimi. A una matinée dell’Opera di Roma, sogno o son desto (non era desto invece il vegliardo a babordo, che si è addormentato dopo esattamente sette minuti – cronometrati – e si è svegliato solo al tripudio finale, commentando pure che aho’, ’sto Gluck è noioso. Anvedi…)?

In effetti, lo spettacolo è splendidissimo. Lo scenografo di Carsen, Tobias Hoheisel, colloca tutto in un suggestivo nulla sabbioso, tipo crosta lunare o landa postatomica o Fregene a gennaio, con un’unica botola per i passaggi dall’Aldiqua all’Aldilà. Su questa «waste land» si aggirano solisti e coro nei consueti costumi da regia moderna, completo nero, camicia bianca e cravatta nera i maschietti e tubino nero le femminucce. Insomma, non c’è niente, a parte il teatro. E il teatro, Carsen sa farlo come pochi. Recitazione meravigliosa, e di tutti, luci splendide, suggestive processioni funebri in controluce che sembrano sorgere dal nulla, immagini che si stampano nella memoria e nemmeno un sospetto di improbabilità in una vicenda dove, alla fine, una tizia muore, risorge, ri-muore e ri-risorge, quindi un tantinello improbabile è.

Da segnalare, poi, che Carsen abbandona per l’occasione la sua ultima ossessione per il teatro nel teatro e il rapporto fra realtà e finzione (vedi il Don Giovanni della Scala, Les Contes d’Hoffmann di Parigi, Tosca e Ariadne auf Naxos di Zurigo, insomma molti dei Carsen più grandiosi), né si fa prendere la mano dal filosofumo sui significati del miti d’Orfeo. Semplicemente, con sano pragmatismo e tecnica eccellente, entrambe molto anglosassoni, racconta una storia e lo fa in un modo meraviglioso.

Al suo livello, e non era facile, la direzione di Capuano. C’è intanto un grande lavoro sul suono orchestrale, che non viene integralmente barocchizzato, sarebbe impossibile, ma fa molti passi sulla via dello «storicamente informato», in termini di vibrato (o meglio della sua assenza), nettezza e articolazione della frase, pulizia di suono. L’Orchestra dell’Opera si mette coraggiosamente in gioco, e con ottimi risultati, idem il coro di Gabbiani. Ne nasce una direzione postmoderna e antidogmatica, che nella querelle des anciens et des modernes non si schiera, non è né veteroclassicista né ba-rock, ma si concentra sul teatro. Esemplari, in questo senso, i recitativi (si esegue l’edizione di Vienna 1762), che hanno una flessibilità ritmica e un’attenzione alla parola che ricordano addirittura Monteverdi, come se la «riforma» gluckiana fosse anche, alla fine, un ritorno alle origini del melodramma.

Infine, poiché talvolta le ciambelle escono anche con il buco, a differenza che in tanti buchi senza ciambella qui ci sono anche i cantanti. Emoke Baráth, Amore (che per Carsen è il doppio di Orfeo) ha una linea di canto di esemplare pulizia e qualche acuto un po’ acido. Mariangela Sicilia è come al solito bravissima e intensissima, quindi risulta un lusso perfino eccessivo per Euridice. E il protagonista, Carlo Vistoli, è eccellente. In un tempo non troppo lontano un grande controtenore italiano sarebbe stato un ossimoro; oggi è una realtà allo stesso livello delle migliori voci bianche internazionali. Ma in una parte come questa essere italiani è un vantaggio, e non da poco. In più, Vistoli ci mette la sua eccellente tecnica, il volume non debordante ma sufficiente a riempire una sala vasta, un uso giudizioso del registro di petto e, vivaddio, un po’ di vibrato che rende ancora più emozionanti i momenti più intensi di questo spettacolo magnifico.

Alberto Mattioli, La Stampa

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