Pino Pelosi è morto, ma il giallo della fine di Pasolini sopravvive

Era l’unico condannato in via definitiva per l’omicidio dello scrittore nel ’75 a Roma

La notte fra sabato uno e domenica due novembre del 1975, Pier Paolo Pasolini venne ucciso da un marchettaro part-time, Giuseppe Pelosi, detto «Pino la rana», diciassette anni, una facies tipica da «ragazzo di vita», quale lo scrittore aveva descritto in romanzi e film rimasti celebri.

L’ultimo suo articolo era uscito il giorno prima sul Mondo: una gigantesca chiamata di correo contro partiti, stampa, uomini politici, sindacati, rei di nascondere la «nuova cultura» figlia di una società dei consumi, autrice di un cinico «genocidio dell’Italia tradizionale, borghese e popolare».

Condannato a nove anni e sette mesi, Pelosi, attore di un dramma più grande di lui, e morto a 59 anni, è finito nel tempo con l’essere considerato il carnefice di un non violento in corsa verso l’annientamento proprio con i mezzi tipici di quel consumismo da Pasolini così aspramente combattuto: una macchina di potente cilindrata; una cena offerta, come primo adescamento, al «biondo Tevere», trattoria dal nome grottesco per quello che avrebbe voluto evocare e invece era ed è – sotto gli occhi di tutti, ventimila lire per una prestazione orale, con pagamento a prestazione avvenuta.

In tutti questi piccoli particolari, in altri ancora: la scelta dell’Idroscalo di Ostia come «luogo d’amore», non più borgata, non ancora città; l’esemplare umano scelto, facies tipica, dicevamo, ma ritrovata con un quarto di secolo di ritardo su quella «bella gioventù» pasoliniana di cui non conservava neppure la calata romanesca romana, ma un melting pot under Garigliano, è racchiuso l’emblema di una vita all’insegna del dubbio, della carnalità, dell’ambiguità e dell’esposizione diretta, non mediata, non trasformista del proprio io. Un io provocatorio, sofferto urlato.

Per quanto possa apparire inumano, fu un bene che Pasolini chiudesse la sua esistenza ancora nel pieno del vigore fisico e intellettuale, e in un modo così disperato. Quella morte gli evitò traumi e sconvolgimenti psichici che ne avrebbero fatto nel tempo un vecchio sconvolto e stralunato. Tutto quello che allora aveva visto e contro cui si era scagliato inorridito, si è in seguito talmente elevato all’ennesima potenza che il vivere sarebbe diventato nient’altro che un’agonia. Meglio la morte. Una morte violenta, appunto.

Quelli che allora parlarono, e ancora oggi c’è chi si attarda in questa litania, di complotti, di agguati, di assassinio «politico», in senso traslato e no, dimostrano al contrario di non avere alcuna pietas nei suoi confronti. In quella società che lo scrittore detestava, si trovavano, e si trovano, a loro agio; quell’Italia omologata e omologabile non li toccava, e non li tocca, più di tanto; quel tanfo di corruzione, morale, sociale, economica non incideva, e non incide, sul loro status di intellettuali a disposizione per ogni variazione di clima Al contrario, si prestava, e si presta, anzi a esercizi di «alta» accademia letteraria.

Si voleva, insomma, e c’è ancora chi lo vuole, un morto cui fare un monumento, magari in nome della democrazia e dell’antifascismo, un martire prêt-à-porter. Tutto quel sangue non nobilitato dalla causa, offendeva, offende Era un santino da adorare, insomma, quello che si cercava, quello che ancora stancamente si cerca. Ma Pasolini resta troppo impastato di cane e di sensi per divenire una versione, riveduta e corretta, di Giacomo Matteotti.

Di fronte a una venerazione pasoliniana un tanto al chilo, tanto per essere presenti alla cultura stile anniversario e commemorazione, bisognerebbe che per esempio nessuno di quelli favorevoli all’aborto legalizzato ne intonasse le lodi, nessuno che abbia fatto la scuola dell’obbligo lo santificasse, nessuno che abbia il suo posto al sole nelle nicchie del potere lo magnificasse come poeta civile… E basta pensare al grido pasoliniano contro la società dei consumi, per capire come con lui l’omologazione intellettuale per cooptazione non funziona: «Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione. Lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo».

Quanto al complotto, nell’ultima intervista aveva previsto anche questo: «Il complotto ci fa delirare. Ci libera di tutto il peso di confrontarsi da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori»…

Stenio Solinas, Il Giornale

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