Flea: «Pensavo che spararsi cocaina significasse vivere al massimo»

In un estratto dalla biografia ‘Acid for the Children’ che esce oggi, il bassista dei Red Hot Chili Peppers racconta in modo candido il suo rapporto con le droghe. «Anthony e io ci chiamavamo i fratelli Siringa»

Per mettere le cose in chiaro, non sono mai stato un tossico. Ma uno sperimentatore sì, seppur mal consigliato e fuori controllo. Pensavo ci fosse qualcosa da scoprire, ma in realtà queste droghe ingannano solo il cervello, giocano con la chimica del corpo, la serotonina, la dopamina, e ti inducono a credere che stia accadendo qualcosa di significativo. Tutte cazzate, non c’è nulla di romantico dietro, non c’è niente. Questi esperimenti causano tristezza, nevrosi, danni fisici. È roba che ti toglie e che non ti dà nulla, zero.

Dopo una di quelle prime serate ero uscito a far festa, con l’idea di essere una persona profonda e intensa solo perché avevo passato la serata a spararmi cocaina. Pensavo a me stesso come a un vero artista underground, uno sperimentatore estremo.

Ero all’Al’s Bar, un club underground al centro di L.A., dove avevo visto alcuni dei migliori concerti rock della mia vita fino a quel momento: 45 Grave, Neighbors Voices, Meat Puppets e Johanna Went (all’Al’s con i Red Hot facemmo i nostri primi concerti). Nel tentativo di rimorchiare una ragazza carina, cercai di impressionarla con le mie storie di droga e le mostrai il braccio ricoperto di buchi recenti.
Lei mi rivolse uno sguardo inorridito e compassionevole, scosse tristemente il capo e se ne andò.
Ops.
Mi sentivo come se le avessi appena detto di aver scalato il monte Everest, o nuotato con le orche, ma dal suo sguardo sembrava le avessi detto che qualcuno era morto in un modo orribile.

Pensavo che spararsi cocaina significasse vivere al massimo, oltre i parametri che la società aveva stabilito per noi. In quel mondo di folle abuso di droga, anche i comportamenti più assurdi sembravano naturali. Il mio atteggiamento quando mi facevo di cocaina, e anche in seguito quando la inalavo o fumavo crack, era frenetico, disperato, sregolato. Era esattamente l’opposto della vita che avrei augurato a chiunque altro.

Non mi resi conto di quanto fosse distruttivo farsi fin quando non vidi da sobrio qualcun altro farlo. Arrivai a casa con David dei Neighbors Voices e trovammo Anthony sul tetto che teneva uno pneumatico sollevato sopra la testa. Era strafatto, in preda alla paranoia da cocaina, diceva che qualcuno voleva aggredirlo ed era pronto a lanciare quell’affare dal tetto. Riuscimmo a convincerlo a scendere, entrammo in casa, lo facemmo sedere e lo aiutammo a scacciare i demoni immaginari. Lui continuò a cercare il mostro sotto il letto e dentro l’armadio.

In seguito scoprii che scene del genere sono piuttosto comuni nel corso di episodi psicotici da cocaina. Anche io mi comportavo in maniera altrettanto irrazionale, eppure in quel momento mi sembrava tutto logico. Quando avevo strisciato sul pavimento in cerca dei cristalli di crack per poi fumarmi veleno per topi, mi era sembrata una cosa sensata. Se un drogato grida come un matto nella foresta e non riesce a sentire il suo stesso urlo, è comunque un pazzo drogato? Dopo essermi sparato la coca ne volevo dell’altra, e in quel momento ero disposto a umiliarmi pur di averla, consapevole o no. Non appena la botta svaniva ero terrorizzato e allora la mia psicosi si manifestava.

Il giorno della storia surreale sul tetto, alla fine Anthony uscì mentre io e David andammo a mangiare un panino al Thrifty, all’angolo tra La Brea e Santa Monica. David, con l’accento francese e gesticolando come un pazzo, disse: «Sembrava di essere in un cartone animato, voleva lanciare lo pneumatico e centrare il cattivo, bloccandogli le braccia per poi lasciarlo intrappolato lì dentro!». Continuammo a ridere per un po’ nel ricordare la scena. Ora mi sembra terribile aver deriso le disgrazie altrui, ma eravamo fatti così. Scaricavamo la tensione. Come se non bastasse, a un certo punto David puntò un dito verso il fondo del bancone ed esclamò sottovoce, divertito: «Guarda, Michael…! Braccio di Ferro!». Signore e signori, vi giuro che Braccio di Ferro in carne e ossa stava mangiando un cheeseburger a qualche metro da noi. Non era vestito come il personaggio, ma non era difficile immaginarselo, dati i bicipiti grossi e abbronzati, la faccia burbera, i tatuaggi da marinaio e la pipa di pannocchia. Era incredibile. Che giornata.

Nei nostri giorni da drogati, Anthony e io ci chiamavamo i fratelli Siringa. Thelonious e Bartolomeo Siringa.

Non sapevo cosa mi stavo facendo. Uno come me, alla ricerca disperata di una guarigione emotiva e spirituale, che si immergeva in altra sofferenza. Tutta la scrupolosità nel disinfettarmi con l’alcol e usare le siringhe una volta sola finì presto. Per esempio, poco dopo un anno, nel periodo in cui recitavo in Suburbia, ero a una festa con un gruppo di altri ragazzi del film e un tizio di nome Bugboy aveva una vecchia siringa malandata, con le linee e i nu- meri sbiaditi e l’ago spuntato, riempita con una potente soluzione di acqua e metanfetamina. In cinque o sei stavamo lì con il braccio disteso e lui ci bucò a uno a uno; io mi presi la mia dose, lasciando che Bugboy mi infilasse la siringa insanguinata in vena (tornerò più in là sugli eventi della serata). Buon Dio, grazie perché sono ancora vivo, il mio angelo custode ha vegliato su di me, grazie. Wow. Merda. Sono sopravvissuto, non sono andato in overdose e non ho contratto l’aids. Avrei potuto essere più stupido, più autodistruttivo?………………Lì per lì mi era sembrata una buona idea.

In tutta quella follia, non avevo mai smesso di leggere. È molto probabile che siano stati i libri a impedirmi di oltrepassare il limite e diventare un tossico, o di friggermi completamente il cervello. La sanità mentale, la guida morale e lo stimolo intellettuale trovati in quelle pagine sono stati cruciali per mantenere la percezione di me stesso. Il rifugio che mi offrivano i romanzi ben scritti era in grado di risanarmi. Mi immedesimavo profondamente nelle storie, ammiravo la prosa poetica di un grande autore, mi sentivo meno solo. Leggere espandeva il mio mondo al di là del bozzolo di Hollywood, e per quanto mentre facevo uso di droghe mi piacesse in modo particolare la letteratura folle (ma non meno profonda) di William Burroughs, Charles Bukowski e Hubert Selby Jr, trovavo nei libri una pace profonda. A meno che non fossi troppo fuso, leggevo ogni sera.

Ero affascinato dai romanzi di Bukowski, uno meglio dell’altro. Aveva l’abilità di descrivere un amore profondo senza necessariamente raggiungerlo: lo vedeva, lo contemplava, ne mostrava la bellezza a tutti quanti. Indagini sofisticate sull’essere umano espresse in un linguaggio semplice e scorrevole. Le pagine delle sue storie erano imbevute dell’unto e del sangue delle strade in cui era cresciuto. Sarebbe stato perfetto come cantante di un gruppo punk. Mi aveva anche aperto le porte della poesia. Non avevo mai trovato il ritmo giusto per leggere e comprendere la poesia, troppo impaziente di coglierne l’essenza, pensando forse di essere ignorante. Non riuscivo ad abbandonarmi alla forma. Come Basquiat con la pittura, il grande Buk me l’aveva proposta in termini da profano. Le sue poesie erano profonde e divertenti, e me ne innamorai, per poi fare lo stesso con Pablo Neruda, William Blake e Arthur Rimbaud. Lo incontrai una volta, Buk, seduto su uno sgabello con in mano una Budweiser in un bar nel centro di L.A. Avevo contenuto il mio entusiasmo e lui mi aveva sopportato. Una sua poesia in particolare mi aveva sciolto il cuore, un’ode al suo gatto, La storia di un bastardo figlio di puttana; glielo dissi e lui accettò di buon grado il mio complimento. Allora lui mi disse: «Quindi ti piacciono i gatti. E che altro ti piace?». Gli risposi che amavo il basket e lui commentò sarcastico: «Ah, una mandria di ragazzi neri in scarpe da ginnastica puzzolenti che corre avanti e indietro avanti e indietro BLAAAHHH», e poi si girò a parlare con qualcun altro. Veniva da un altro mondo.

Era raro per me raccontare ad altri del mio amore per i libri. Un paio di cari amici provarono addirittura a convincermi a lasciar perdere, sostenendo che vivevo in un mondo di fantasia perché non ero in grado di gestire quello reale.

rollingstone.it

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