Antonio Pappano: «Nella pandemia dirigo gratis per salvare la musica»

«Fino a domenica devo fare il lockdown», dice Antonio Pappano, tornato a Roma, da Londra, per dirigere Orchestra e Coro di Santa Cecilia, il 29 in live streaming per Rai Cultura su RaiPlay con Elias di Mendelssohn, l’Oratorio sul profeta che sconfisse l’idolatria del popolo d’Israele. Era uno dei tre soli concerti della stagione previsti con intervallo, come usava nella vita «normale», prima della pandemia. Così disse a fine settembre: è cambiato tutto.

«L’intervallo lo faremo anche ora ma per motivi diversi: bisogna sanificare l’ambiente e siamo obbligati a una pausa». Quattro mesi fa è un mondo fa. «Il virus ci ha costretti a rimodulare la stagione, la Passione secondo Matteo non potrò farla perché prevede due piccoli cori accanto all’Orchestra che aveva manifestato disagio per la vicinanza fisica con i cantanti che non possono mettere la mascherina. Tanti contratti cancellati, abbiamo dovuto rinunciare a due grandi concerti in piazza del Popolo con la Nona di Beethoven e la musica di Morricone, a Roma ho sospeso il mio compenso come direttore musicale, per i concerti prendo un cachet molto ridotto e per i tre in streaming al Covent Garden di Londra ho lavorato gratuitamente».

Londra è oggi quello che era l’Italia nel primo lockdown? «Ho seguito le notizie, sempre più macabre, l’aumento dei morti, il Paese diviso tra chi ragiona e si prende cura degli altri e chi se ne frega. Il caos e la paura. Non parliamo del mio teatro, l’Opera, che da dicembre è chiuso, almeno in Italia si continua in streaming. Il danno economico è indescrivibile, ma a Santa Cecilia hanno lavorato Petrenko, Gatti, Gardiner, sono segnali di incoraggiamento importanti».

C’è una irrazionalità inglese al virus, Pappano dice che «non siamo abituati alle difficoltà, dagli anni ’50 ci fu uno sviluppo sociale straordinario e la mia generazione, dei 60enni, non ha sofferto come i nostri genitori. Il lockdown ha prodotto stanchezza e sospettosità, e poi c’è sempre la memoria dell’Impero, il ritenere che ce la possiamo cavare da soli». Ci si chiede se il virus cambierà la musica, con un prima e un dopo: «I segni, anche sottili, resteranno. Alcuni piccoli enti crolleranno. Io sono felice che a Santa Cecilia si lavori, non me l’aspettavo vedendo che le cose andavano di male in peggio. Se non si fa squadra si spalanca l’abisso, e da noi è esplosa la necessità di sentirsi parte di una comunità, la condivisione, un dato che in musica si dà per scontato ma è una conquista».

Pappano dice che esiste un suono di questo periodo: «All’inizio pensavo a una musica languida o contemplativa, poi a una musica che avesse gioia, energia. Elias ha entrambi questi tratti. Il profeta è severo con il popolo israeliano che muore di fame come in una specie di virus, e poi ci sono momenti che abbracciano la fede, il lirismo, gli angeli che cantano, e si cerca la normalità, la speranza. E’ una situazione che ha a che fare con noi oggi, è un pezzo drammatico in cui Mendelssohn, luterano di famiglia ebrea, esprime un legame col suo passato religioso, e ricrea l’Oratorio, genere barocco, con una sensibilità romantica. Non so come lo porterò a casa, con la distanza fisica. E’ un esperimento, un rischio ma ci tenevo».

Valerio Cappelli, corriere.it

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