«Adrian», l’imbarazzante cartone animato di Adriano Celentano fa 6 milioni di spettatori

Il tema, gira e rigira, è sempre quello: essere all’altezza di sé stessi. Quando ti chiami Adriano Celentano, e hai dietro le spalle la storia che hai, è una sfida impari, una battaglia persa in partenza, un Everest da scalare a piedi nudi. Soprattutto perché sei Adriano Celentano e il senso del limite – giubbotto salvagente di qualsiasi grande artista nell’oceano dell’ego – non sai neanche com’è fatto. Spiace che nella biografia del Molleggiato vada allora a finire pure questo Adrian, imbarazzante distopia a cartoni animati realizzata con Milo Manara la cui prima puntata è andata in onda lunedì 21 gennaio su Calane 5. Non che l’81enne ex Ragazzo della via Gluck in 60 anni di carriera di passi falsi non ne abbia mai fatti, anzi: soprattutto quando ha assecondato la sua vena messianica, anticonsumista, anti-modernista, il predicatore del rock and roll tricolore è scivolato spesso e volentieri. Basti citare lo sconclusionato film Joan Lui – Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì (1985) con cui Adrian sembra gareggiare in quanto a delirio d’onnipotenza mal riposto. L’ultima fatica celentaniana è stata trasmessa in quella che, per la televisione italiana, potrebbe passare alla storia come la notte dell’imponderabile: su Rai 2 andava per la prima volta sul piccolo schermo Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, con tanto di introduzione «celentaniana» del direttore di rete Carlo Freccero. Su Sky Cristiano Ronaldo sbagliava il primo rigore della sua avventura juventina. Su Canale 5 Celentano faceva Celentano. Specialità della casa: giocare con l’assenza. In ogni caso, in termini di ascolti il debutto è andato abbastanza bene. Sono stati quasi 6 milioni (5,9 milioni per la precisione), pari al 21.9% di share, i telespettatori che hanno seguito la prima parte dello show. Il cartoon ha raccolto invece 4 milioni 544 mila spettatori e il 19.08% di share. Al di sotto della fiction di Rai 1 La compagnia del cigno che ha avuto 5 milioni 219mila spettatori con il 21,36% di share. Prima del cartone c’è lo show televisivo, alimentato nei giorni precedenti alla messa in onda da articoli di giornale che discettavano sull’apparizione o meno di Celentano e sulle defezioni indignate di Teo Teocoli e Michelle Hunziker. Tutto fa teaser nel brodo della Tv. Ma dire che la messa in scena delude è un eufemismo. La scenografia allestita al teatro Camploy di Verona rimanda alla fine dei tempi: una specie di raffigurazione del Lago di Lecco sul quale galleggia una grossa imbarcazione di legno che è la nuova arca di Noè, un pontile che spunta dietro lo scoglio, un localino denominato «Bar Chiesa», una porta del paradiso che promana luce bianca, un ufficio di dogana, Nino Frassica e Francesco Scali vestiti da frati. «Siamo qui per decidere chi può salire sull’arca e contribuire a costruire un futuro migliore grazie alla bellezza di cui è portatore», spiega Scali prima di iniziare le «audizioni» a coloro che aspirano a salire sull’arca. La fine dei tempi come un reality show. C’è spazio per una bella ragazza bionda che non sa ballare e non sa cantare e allora è perfetta per la televisione, ma anche per un affettato imprenditore che, senza parlare, apre una 24 ore piena di denaro e corrompe i due frati. Natalino Balasso nelle vesti del pazzo introduce il padrone di casa: «Celentano sembra che non ci sia, ma quando c’è rompe i coglioni». Il Molleggiato, preceduto da tuoni e fulmini, fa un’apparizione di appena tre minuti. E gioca a fare il regista: «C’è qualcosa che bisogna cambiare qui», dice prima di lanciare il cartone. Ed eccolo Adrian, favola distopica ambientata nell’Italia del 2068, cento anni esatti dopo quel grande Movimento che l’Adriano nazionale, all’epoca su posizioni conservatrici, neanche comprese (vi dice niente Tre passi avanti?). Il consumismo divora tutto, i grandi schermi che trasmettono pubblicità sono ovunque, il potere è in mano a un regime che reprime (bellezza e cultura sono i nemici sui quali si accaniscono oscure squadriglie di swat, roba trita e ritrita alla Fahrenheit 451) e distrae (con i concerti di tale Johnny Silver, rockstar affettata che canta con la voce di Giuliano dei Negramaro). I media sono veicolo di fake news e figuriamoci. E le molestie sessuali sulle donne sono moneta corrente. A Napoli rifiuti in strada e un grattacielo che ospita la sede di «Mafia International». Impresa edile. Alla faccia dei cliché. Milano è come se fosse stata divorata da City Life («Ma perché continuano a costruire?», sempre là stiamo) ed è un miracolo se in mezzo ai grattacieli sopravvive la via Gluck, esattamente com’era negli anni Cinquanta. Laggiù abita Adrian l’orologiaio, una specie di idealizzazione platonica del Molleggiato con pettorali che manco il doriforo di Policleto. Più o meno ogni tre minuti si avvinghia per un amplesso alle curve di Gilda, trasfigurazione di Claudia Mori in eroina di Manara. Siamo all’«amore ci salverà» facile facile, altro eterno ritorno della poetica celentaniana. L’amore ci salverà e pure un po’ il sesso, signori miei. Va a finire che al concerto di Capodanno di Johnny Silver c’è un protagonista a sorpresa. Indovinate chi? Adrian, ovviamente, che canta I want to know, pezzo di vago ribellismo datato 1976: «Vorrei sapere/ Come fa la gente/ A concepire/ Di poter vivere/ Nelle case d’oggi/ Inscatolati come le acciughe». Quanto basta per trasformare l’artigiano palestrato in un pericoloso ricercato del regime. Semplice semplice. Come diceva Einstein? «Tutto dovrebbe essere reso il più semplice possibile, ma non più semplicistico». Qui casca l’Adrian. E la montagna (sacra) partorisce il topolino.
Eppure lo sforzo produttivo non è sta affatto banale: si parla di 2 milioni di investimento a episodio per una serie da nove puntate. Il progetto, inizialmente in mano a Sky, ha avuto una gestazione di 11 anni e coinvolto personalità di primo piano del nostro showbiz: oltre allo stesso Manara, il premio Oscar Nicola Piovani per le musiche, il compianto Vincenzo Cerami, sceneggiatore allievo di Pier Paolo Pasolini a lungo braccio destro di Roberto Benigni, gli allievi della Scuola Holden di Alessandro Baricco, mille animatori e cento tecnici. Con questo think tank, tra misticismo e distopie, poteva uscirne qualcosa degno di Alejandro Jodorowsky, una Montagna Sacra. E invece qua la montagna ha partorito il proverbiale topolino. Perché Celentano è Celentano. Perché Celentano pretende la regia, il nome sopra il titolo, l’ultima parola su tutto. Perché Celentano pretende il ritorno alla Milano verde, popolare e solidale in cui è cresciuto ma ne dimentica il comandamento fondamentale: «Ofelè, fa el to mesté».

Francesco Prisco, Il Sole24 Ore

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