Orietta Berti: «Siamo nati per amare»

La sottile magia di Orietta Berti sta nel conciliare mondi ritenuti fino a quel momento scissi, lontanissimi: il bel canto di una volta e il rap, le bluse di paillettes e i tatuaggi dei trapper, la famiglia più tradizionale e la libertà femminile, l’immagine rassicurante e i colpi di scena utili nel generare fiotti di meme. Tutto in lei risuona di un’eccezionale normalità ed è forse anche per questo che, dopo anni di relativa distanza dall’occhio del ciclone mediatico, Orietta è tornata più luccicante e richiesta che mai: Sanremo 2021, poi Mille con Fedez e Achille Lauro, tanta tv e da poco un nuovo singolo frutto della collaborazione con la Machete gang di Hell Raton, subito prima di partire on the road con Mara Maionchi e Sandra Milo per un progetto Sky.

L’ho incontrata ai bordi del set di cui vedete gli sfavillanti risultati in queste foto, tra le sue bambole d’epoca e le parrucche fluorescenti con cui era solita travestirsi nei party della comunità LGBTQ+ di Los Angeles che amava frequentare prima delle restrizioni pandemiche, per rievocare ciò che è stato e soprattutto sarà. Un lungo salto temporale all’indietro fino a Cavriago, il paese dell’Emilia in cui è cresciuta, famoso per la piazza col busto di Lenin ai piedi del quale ancora oggi vengono portati fiori rossi. «Ricordo le processioni col mio papà: andavo sempre a messa con lui, i suoi amici più cari erano tutti sacerdoti. Il mio compito era quello di tenere i cestini pieni di petali di fiori e di spargerli per la strada. Anche se mi divertivo di più ad andare alle manifestazioni politiche con mia madre Olga, fervente comunista, dove la banda suonava musiche allegre».

Da piccola quali erano i suoi modelli?
«Ero un maschiaccio. Avevo più amici che amiche, prendevo le sembianze di quelli che mi sembravano più forti, dei bulli. La prima bicicletta l’ho voluta da maschio. Me l’hanno presa usata: di soldi ne giravano poco. Cadevo sempre, fossi, canali, la bicicletta da femmina era più facile da gestire. Più volte ho rischiato di affogare nel canale del paese. Ho avuto un’infanzia piena di giochi pericolosi».

La musica quando arriva?
«Ho iniziato a studiare canto per volontà di mio padre: avrebbe voluto fare il tenore ma non aveva potuto, motivi economici. Mi mandò a scuola di canto lirico e tutti gli dicevano di lasciar perdere: “Signor Galimberti, guardi che la ragazza non ha voce”. Ero timidissima: a tredici anni, davanti al maestro che mi suonava gli arpeggi per i vocalizzi, mi paralizzavo. Ma mio padre ha insistito e abbiamo iniziato coi concorsi».

Poi c’è stato l’incidente.
«Mio papà è morto che avevo diciotto anni. Era in motorino, un suo amico l’ha chiamato e un camioncino della frutta non lo ha visto. Ha battuto la testa, è morto sul colpo. Il trauma in me non è mai andato via: sono diventata ansiosa, anche come moglie e come mamma».

VanityFair.it

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