GAD LERNER TORNA IN RAI PER RACCONTARE L’ISLAM FUORI E DENTRO L’ITALIA

gad-lernerA 25 anni da quel «Profondo nord» che aprì la questione settentrionale, a 16 da quando – come lui dice – lasciò burrascosamente la direzione del Tg 1 e di conseguenza la Rai, Gad Lerner torna su Rai 3 la domenica sera con un nuovo programma, «Islam, Italia», sei reportage con cui prova a raccontare la composita realtà musulmana italiana, interviste e riprese fatte viaggiando nel nostro Paese e trasferte all’estero, dalla Nigeria all’Ungheria, dal Libano al Qatar, per ulteriori risposte e testimonianze.  Tema della prima puntata «Fede e denaro», «la sottomissione alla fede e il denaro che arriva alle moschee italiane dai paesi dell’Islam capitalista, in particolare il Qatar, il paese più ricco del mondo: Ferrari e niqab». Temi delle altre puntate il mondo femminile, la comunità nigeriana, il rapporto tra immigrazione clandestina e islamofobia, le carceri e la radicalizzazione islamista, la finanza islamica in relazione alla crisi economica europea. In ogni puntata gli aspetti diversi e opposti di una stessa realtà, i contrasti estremi, spesso sconosciuti.

Come definirebbe il programma?  

«Reportage. Di servizio pubblico. Non uno spazio autogestito, alla maniera di “Protestantesimo” o “Sorgente di vita”, come forse molti avrebbero voluto. In grado di offrire un approccio critico per far conoscere un pezzo importante della nostra società».

Nessuna problema circa il fatto che a raccontare l’Islam sia un ebreo?  

«Premesso che in alcuni paesi come Quatar e Libano non sarei potuto entrare se sul mio passaporto italiano avessi avuto il visto per Israele, in Italia sono conosciuto come ebreo ma anche come persona curiosa e aperta. Viene colto il fatto che, nato a Beirut, si abbia una matrice comune, che io abbia in qualche modo vissuto in anticipo una stessa esperienza di profugo».

Non è la prima volta che si avvicina, e molto, al mondo arabo.  

«Nella notte dei tempi, il 1986, ancora giornalista della carta stampata, ho fatto un giro d’Italia travestito – come allora si diceva – da vuccumprà. E comunque per oltre un decennio sono stato conosciuto come “L’infedele” (titolo di un programma da lui condotto su La7, ndr), la classica formulazione della diffidenza che separa i nostri mondi. Detto questo sono stato accolto ovunque con grande apertura e in amicizia, anche tra le mura domestiche di molte persone con cui ho parlato. Critiche e obiezioni preliminari ne ho avute, comunque. Ma molto più spesso dal versante della politica italiana che dal mondo islamico».

In questa stagione si assiste a un diffuso recupero del reportage.  

«L’abbattimento dei costi di produzione grazie alle nuove tecnologie che permettono troupe leggere e meno invasive, la possibilità di tornare sul campo e incontrare la gente in modo diretto, nel suo mondo e non in studio, l’usura della liturgia dei rituali del talk show ormai consunti e innaturali, tutto questo rende il racconto per immagini più significativo, più adatto a raccontare la realtà. Per l’Islam per esempio la scelta di raccontare un mondo mostrarlo dal suo interno, nel bene o nel male, e non facendo parlare opinionisti vari. Insomma: va’ e racconta»

La Stampa

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