SUZANNE VEGA: “ERO UN’OUTSIDER, L’UNICA BIANCA NELLA NEW YORK POVERA”

La cantautrice americana in tour in Italia racconta le sue passioni letterarie, la fede buddista, la sua opinione su colleghe di oggi e di ieri come Taylor Swift, Rihanna e Beyoncé

suzanne vega“Non ho mai scritto per compiacere le case discografiche, il pubblico, per arrivare in vetta alle classifiche. Prendo ispirazione da quello che vedo, da quello che immagino, da ciò che leggo”. Suzanne Vega, la cantautrice americana dalla voce delicata e i modi garbati nota al grande pubblico grazie a brani come Luka e Tom’s Diner torna sulle scene col nuovo album Lover, Beloved: Songs from an Evening with Carson McCullers, in uscita il 14 ottobre prossimo a due anni di distanza dal successo di Tales from the Realm of the Queen of Pentacles. Una nuova ispirazione dunque, per l’antidiva del folk rock che celebra infatti una illustre scrittrice vissuta ai primordi del secolo scorso e antesignana dei tempi, Carson McCullers, in due momenti storici della sua carriera. Intanto, per avvicinare i fan al nuovo lavoro, la songwriter sta promuovendo un tour europeo che fa tappa in Italia per 7 date: dopo Gavorrano (Grosseto) e ieri sera a Genova al Lilith Festival, toccherà stasera Bologna e di seguito Codroipo, Merano, Treviso e Pusiano (Como). In scaletta i pezzi storici, alcuni tratti da Queen of Pentacles e una manciata di inediti che fanno parte del nuovo lavoro quali Harper Lee, We of Me, New Yok is my destination, Annemarie. Si parte con Fat man & dancing girl e Marlene on the wall, via via si susseguono Small blue thing, Jacob and the angel, Crack in the wall, Left of center, I never wear white, Some journey, le inossidabili Luka e Tom’s Diner e molte altre.
“Mi piace il live, essere in tournée, il contatto diretto col pubblico come quello di Genova che mi ha accompagnato battendo le mani a tempo a più riprese”, confida Suzanne. “Quando mi chiedono le canzoni durante i bis io cerco di accontentare sempre le richieste, ma non posso farle tutte. Ovviamente di fronte a pezzi come In Liverpool non posso negarmi, né lo vorrei. Inoltre, ero curiosa di esibirmi in questo Lilith Festival sulla canzone d’autore al femminile perché anni fa partecipai alla carovana itinerante tutta al femminile made in Usa “Lilith Fair”, che ebbe molto successo e in cui parte degli incassi andarono a sostenere i diritti delle donne. In entrambi i casi le organizzatrici sono cantautrici (in America fu la folk singer canadese Sarah McLachlan, nel capoluogo ligure sono Cristina Nico, Sabrina Napoleone e Valentina Amandolese, ndr) e promuovono nuove artiste. Trovo sia un’affascinante coincidenza e un buon modo per portare avanti il discorso, scoprire talenti: la ragazza che ha fatto l’opening act ieri sera, Jess, ha delle potenzialità, mi è piaciuta, e la venue sul mare era perfetta”.
Il nuovo disco, invece? Cosa l’ha spinta a dedicare il nuovo album alla scrittrice Carson McCullers?
“Amo le sue opere, il suo personaggio. È una donna molto moderna dal carattere straordinario, sebbene sia vissuta molto tempo fa; il suo spirito e le istanze che ha portato avanti sono molto attuali. Mi appassionai ai suoi scritti dopo aver letto uno dei suoi primi racconti. Pensiamo che è nata nel 1917 nel sud degli Stati Uniti in piena rivolta politica e razzismo, arrivata poco più che ventenne a New York. In dieci canzoni mostro due momenti storici della sua carriera: il primo è datato 1941, quando The Heart Is A Lonely Hunter la spinse a fama letteraria, il secondo è rivolto a poco prima della sua morte, a 50 anni, in cui riflette su se stessa. La sua è stata una esistenza difficile, fatta anche di malattia e costretta in seguito alla sedia a rotelle, di depressione e tentativi di suicidio. Aveva idee moderne per l’epoca e le ha incarnate come nessun altro autore o scrittore abbia mai fatto. Ha cercato di viverle e ha pagato un prezzo per questo. Se mai volessi impersonare qualcun altro in una prossima vita, sceglierei lei”.
In “Tales from the Realm of the Queen of Pentacles” ha esplorato perlopiù il mondo interiore, in questo invece pare prevalga l’amore, il sentimento in tutte le sue sfumature.
“Intanto c’è da dire che Queen of Pentacles rappresentava un mondo perlopiù spirituale a contatto con quello materiale, mentre questo disco è un qualcosa a cui lavoro da molto e non ha nulla di personale. Carson riusciva meglio a descrivere il prossimo, l’umanità in genere che non se stessa e la sua vita personale. Basta leggere il romanzo Il cuore è un cacciatore solitario in cui il protagonista è un medico di colore infermo votato alla causa del riscatto dei neri: ne emerge uno spaccato della società che animava il Sud degli Stati Uniti, la condizione degli afroamericani, la complessità del personaggio. Nel suo privato invece Carson aveva difficoltà a relazionarsi persino col marito e con altra gente che amava, ed è quello che ho cercato di esplorare”.
Carson McCullers era una antesignana dei tempi e spaziava dalle proprie lungimiranti filosofie sul sesso alle problematiche razziali sino agli emarginati e alla povera gente. Trova somiglianze tra voi, viste certe tematiche presenti nelle sue canzoni?
“Sì, in parte ho fatto questo lavoro perché mi identifico col punto di vista della McCullers. Sono cresciuta in un ambiente povero a NY, molto spesso ero l’unica ragazza bianca oltre a mia madre a girare per le strade. Insomma, ero io l’outsider. E anche in casa, ho avuto un padre diverso rispetto ai miei fratelli e sorelle perché mia madre si era risposata, io ero quella diversa. Penso che questo mi abbia fatto sentire come se fossi sempre ai margini dell’esistenza. Parallelamente però potevo vedere i problemi del mio ambiente, razzismo compreso. Avevo 9 anni quando scoprii che l’uomo che mi aveva cresciuto, scuro di pelle, coi capelli molto ricci (lo scrittore portoricano Ed Vega, ndr) non era mio padre e ne fui molto scossa perché mi piaceva l’idea di essere per metà portoricana, invece ero bianchissima. Così sono cresciuta in un’atmosfera molto cosciente del ruolo del mio patrigno nella società. Era molto radicale, attivo politicamente, andava alla marcia di Washington e ad altre marce, negli anni Sessanta e Settanta. Io frequentavo la comunità ispanica, ascoltavo musica sudamericana… per questo, l’atmosfera del libro di Carson mi è familiare”.
Entrambe avete iniziato a scrivere e ad esplorare l’arte in giovane età. Anche questo vi accomuna.
“È più di una similitudine: Carson iniziò a studiare pianoforte a 10 anni e divenne prima di tutto pianista, per poi capire che la scrittura era la cosa più importante per lei; io iniziai alla stessa età a fare danza, che studiai per anni. Poi intuii che non ero abbastanza brava e mi lasciai trasportare dalla musica e a 14 anni scrivevo già canzoni. Più tardi, fu un concerto di Lou Reed ad aprirmi al rock e a certe tematiche. Lui evocava ciò che vedeva attorno a sé, affrontava temi come la disperazione e la violenza e capii che quella era la mia strada. Siamo state entrambe precoci, sì”.
Ai testi ha collaborato nuovamente con Duncan Sheik, suo amico di vecchia data.
“Lavorare con Duncan è un vero piacere. L’ho conosciuto praticando il buddismo, anzi, dapprima conobbe mia madre la quale continuava a dirmi quanto era bravo e bello e alla fine l’ho incontrato. Diventammo amici ma abbiamo iniziato a lavorare insieme di recente, dal 2010. Gli espongo le mie idee e lui le tramuta in canzoni. Gli dico: “Carson vuole trasferirsi a New York, sogna di andarci da sempre, voglio un qualcosa che suoni attraente come New York negli anni Trenta”. Mi manda in risposta le melodie, poi metto i testi e lui fa delle correzioni. Ha una vero talento per gli strumenti e gli arrangiamenti, sa dare colore alla musica, ha una inventiva infinita che io non ho”.
Quali canzoni preferisce del nuovo disco?
“Mi piacciono due canzoni molto diverse tra loro: Annemarie, così piena di desiderio e di amore, pur se non corrisposto. La faccio già live. L’altra ha un mood completamente differente ed è Harper Lee, acuta e divertente”.
Parlando di scrittori, una volta ha detto che è cresciuta leggendo Dickens, Graham Greene ma anche Bret Easton Ellis e i minimalisti degli anni 80. Ai giorni nostri, c’è un autore in particolare che segue?
“Bella domanda! Vorrei potermene uscire con qualche grande rivelazione di un nuovo autore, ma sto ancora leggendo quelli ‘vecchi’. Se guardo sul mio ‘kindle’ trovo James Salter, mancato lo scorso anno: ha un bello stile, è speciale pur non essendo molto famoso, ha scritto belle opere. Poi ho letto l’autobiografia di Jeanette Winterson, interessante, e At the Existentialist Café. Sto leggendo anche una biografia e un po’ mi imbarazza dirlo, si chiama Reflected Glory – The life of Pamela Churchill Harriman, parla di questa donna famosa per la sua vita sessuale che poi ha sposato un uomo molto ricco”.
In ambito musicale cosa ascolta, invece?
“Ascoltare è una parola grossa. Trovo interessante Anderson Paak, che fa una sorta di rap/R&B; Rihanna ma non per i testi, mi mette di buonumore. Io e mia figlia che ha 22 anni condividiamo un iCloud, quando compra musica con la mia carta di credito alla fine la ascolto anch’io. Sono una mamma molto generosa (ride)”.
Sue canzoni come “Luka” e “Tom’s Diner” hanno venduto molto pur avendo contenuti molto seri. Cosa pensa della musica pop attuale?
“Penso che non c’è nulla di male nel pop. Mi piace Taylor Swift, credo sia molto intelligente e una brava autrice, brillante. Poi se intende chiedermi se esistono nuovi autori significativi rispetto a quelli del passato, posso dirle che io mi sento ancora ispirata da Bob Dylan e Leonard Cohen e che ai giorni nostri forse la poesia non è poi più così importante, anche se di tanto in tanto si hanno sorprese. Anderson Paak si esprime in questo senso, idem Obaro Ghostpoet, che è inglese. Mia figlia e i suoi amici ascoltano musica anni 60 e 70, mi disse che al College fanno dei party dove ascoltano gli album di Dylan. Si siedono, mettono il vinile nello stereo e lo fanno andare dall’inizio alla fine come si faceva ai miei tempi. Per loro è qualcosa di strano, una sorta di esplorazione mirata, ma affascinante”.
Lei ha fatto da apripista a cantautrici come Tori Amos, Alanis Morrissette, Fiona Apple e varie altre. Cosa pensa dell’attuale scena musicale femminile?
“Negli 80 vigeva l’idea che una donna che scrivesse canzoni fosse inusuale, ma ora è diverso e credo sia bello avere così tante donne nella musica che non siano solo pop star ma inviino messaggi. Mi piace Beyoncé perché nelle sue canzoni il ‘black power’ risalta spesso, trovo che sia un modo intelligente di fare pop. Ma a ben pensarci, le donne musiciste e autrici esistevano anche in tempi remoti: ho scoperto recentemente che mia nonna paterna, la madre del mio vero padre, era batterista in una band di sole donne, negli anni 30. Questo è fantastico” .
Quanto è importante il buddismo nella sua vita?
“È meraviglioso, mi ha dato una prospettiva e mi insegna molto a incanalare ed esprimere i miei sentimenti di preoccupazione. Prego due volte al giorno e quando succedono fatti spiacevoli e dolorosi come a Nizza, contribuisco pregando per la pace nel mondo. L’imperativo è cercare di vivere bene e di non far male a nessuno, semmai aiutare. Ho iniziato a praticare il buddismo a 16 anni e continuerò a farlo”.
Dopo la morte di Prince ha condiviso con i fan nel suo sito web una lettera che lui le inviò nel 1987 dove si complimentava per “Luka”, che trovava coinvolgente ed emozionante.
“È stato uno shock apprendere della sua morte, eravamo quasi coetanei. Era sempre giovane e bello, io lo vedevo così, sempre uguale. Non si sapeva avesse quei problemi. Postai la lettera per condividere il dolore, pensando che al massimo l’avrebbero letta un migliaio di persone. Di solito sono molto riservata sulle mie cose e le mie emozioni. Invece ha fatto il giro del mondo, e in fondo sono contenta così. Mi commuovo sempre quando leggo la frase finale, “Ringrazio Dio per averti creata”. È qualcosa di bello che custodisco, scritto a mano, è per sempre”.
Lei ha sempre scritto canzoni senza compiacere le major o perseguendo facili guadagni. Come ha fatto a restare “integra” e fedele ai suoi princìpi, nell’ambiente discografico, nello star system in generale?
“Ho un buon istinto di conservazione. Credo che vivere a New York in un ambiente povero mi abbia dato il senso di sapere cosa fare e come essere fedele a me stessa. Ricordo che per il remix di Tom’s Diner avrei potuto dire “No, è una distorsione della mia canzone”, ma l’ascoltai e mi è piacque. Non cambiava la canzone, né il significato, né la mia voce, dava solo un sapore differente e potenzialmente dunque più persone potevano gradirla, come infatti avvenne. Ad esempio, mi cercano perché vorrebbero fare parodie di Luka ma io ho sempre detto di no: questa canzone è seria su idee serie e non è un gioco. Insomma, sono molto chiara su quello che permetto e quello che non permetto. Sono cresciuta così, è il mio istinto”.
C’è ancora bisogno di poesia, nella musica?
“In fondo tutto è poesia e tutto è musica: semmai è il modo di esprimere le cose che fa la differenza ed è comunque reale, e va oltre al mondo della televisione. Al bambino piccolo cantiamo una canzone per farlo addormentare; se celebriamo un compleanno cantiamo una canzone, lo stesso se festeggiamo il nuovo anno e persino quando si muore, cantiamo una canzone. La musica è sempre presente nelle nostre vite e farà sempre parte di queste. Abbiamo bisogno di canzoni per le cose speciali e di belle parole da ricordare nel tempo”.

Lucia Marchiò, La Repubblica

Exit mobile version