Isabella Rossellini, Pinocchio, Dumbo, la cicogna e le galline: “Disney è arte vera”

L’attrice presta la voce al personaggio dell’ambasciatore in ‘Gli Incredibili 2’. “Da ‘La carica dei 101’ i suoi film hanno accompagnato la mia infanzia, rappresentano l’amore per gli animali e per i sentimenti. Con la Pixar i cartoon oggi hanno una forza di comunità che altri non hanno”

“C’è chi perde i sensi davanti a un’opera di Canova o al David di Michelangelo. Io, la sindrome di Stendhal, ce l’ho avuta quando ho visto per la prima volta La carica dei 101″. Occhi color nocciola, capelli sciolti, giacca bianca sulle spalle. Isabella Rossellini sembra al centro di una tribuna governativa, come “l’ambasciatore”, il personaggio che interpreta in Gli Incredibili 2, sostenitrice dei diritti dei Supereroi, attivista, leader in rosa. È seduta su un divano in uno studio a New York e con l’umiltà “di una contadina”, dice, si accosta al magico mondo di Walt Disney “senza credere ancora di aver prestato voce a un personaggio Pixar”. Un sogno che si avvera.

Attrice, modella da 23 copertine su Vogue, l’America è la sua casa dal ’79  – otto anni prima, appena sbarcata, il fotografo Richard Avedon ferma la sua bellezza in uno scatto storico – ma è nata a Roma. Il dna Rossellini è noto: figlia dell’attrice svedese tre volte vincitrice del premio Oscar, Ingrid Bergman, e di uno dei padri del neorealismo italiano, Roberto Rossellini. Terza moglie di Martin Scorsese e partner del visionario David Lynch. Ha recitato in Blue Velvet (1986) di Lynch, La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis, ricevuto una nomination ai Golden Globe per la sua interpretazione in Crime of the Century (1996), diretto serie e cortometraggi (da Green Porno a Bon appétit! fino a Mammas) presentati nei più importanti festival internazionali, dal Sundance a Tribeca, l’ossessione per il comportamento degli animali e l’istinto materno (in Mammas Rossellini prende le sembianze di un ragno) e un master’s degree in conservazione degli animali.

Gli autori che l’hanno scelta si chiamano Guy Maddin, Peter Weir, Lawrence Kasdan, Denis Villeneuve. A questi si aggiungono il fotografo Bruce Weber, la graphic novelist franco-iraniana Marjane Satrapi (Pollo alle prugne), John Schlesinger (The Innocent), Renzo Arbore e Roberto Benigni (Il Pap’occhio). Si è esibita sotto il tendone in Link Link Circus tra teatro, freaks, mangiafuoco e palcoscenici per rabdomanti di storie. A tre anni dal ruolo di Trudy in Joy al fianco di Robert De Niro e Jennifer Lawrence, è la matriarca nella serie tv Shut Eye in onda su Hulu. Dopo aver redatto l’autobiografia Some of me ha deciso di raccontare la sua “rinascita da contadina” nel libro Le mie galline e io, omaggio all’etologia e alla sua fattoria a Long Island, illustrato da disegni e fotografie di Patrice Casanova.

Le piace di più scrivere o recitare?
“È faticoso scrivere. Quando scrivo monologhi e libri, la parte più difficile è trovare le parole giuste, organizzare i pensieri. Si diventa matti. La regia è una sfida: il momento in cui giri è prezioso, coinvolge maestranze e professionisti. Devi pensare velocemente e non dissipare denaro: le cose più personali sono sempre fatte con pochissimi soldi. Il trucco è mirare al bersaglio e ignorare gli inconvenienti sul set. Non devi perdere di vista l’obiettivo. Fare l’attore è solo apparentemente più facile. La paura del pubblico non passa neanche con l’età. Quando entri in scena senti il cuore che fa bum bum”.

Nel libro Io e le mie galline si mostra orgogliosa di essere una contadina.
“In Italia, è stato presentato come un libro per ragazzi. Ha una sua parte adolescenziale, leggermente ingenua, che mi piace condividere con i giovani. Sessantasei anni fa, quando venivo al mondo in Italia, il contatto tra città e campagna era molto sentito. Sono cresciuta con un maiale, le galline, i polli, i tacchini, il fieno. Il contadino amico di famiglia si occupava dei nostri animali e di quelli del vicino. Eravamo una comunità. Le piccole fattorie artigianali in America sono sparite. Esistono solo le grandi fattorie industriali, anche se adesso sembra esserci un ritorno. Dal cibo biologico alla nostalgia per la natura e per la conoscenza perduta”.

Perché ha chiamato il suo cane Pinocchio?
“Inizialmente lo avevo chiamato Lobo, come il re di Currumpaw, capobranco di un gruppo di cinque lupi. I cani, geneticamente, sono dei lupi addomesticati. A ogni modo, un giorno ho capito che Lobo era un racconta-frottole. Non sapete quante bugie diceva. Un esempio? Gli proibivo di salire sul divano a dormire; socchiudendo la porta di casa, sembrava restare buono e fermo nella sua cuccia. Poi, mentre uscivo, si tuffava sul divano. Al mio rientro, appena sentiva la chiave inserita nella fessura, saltava a terra e si rimetteva nella cuccia. Faceva finta di aver trascorso tutto il tempo lì, ma io trovavo divano e poltrona pieni di peli. Da quel momento ho iniziato a dirgli: ‘Sei un bugiardo’. E da Lobo è passato a Pinocchio. Sono una grandissima fan di Disney. In Italia abbiamo un Pinocchio di Comencini e uno di Benigni. Meravigliosi. Noi italiani siamo viziati dalla bellezza di queste versioni: l’originale di Carlo Collodi, i film di Comencini, Benigni e Disney”.

Che rapporto ha con i classici Disney?
“La passione dei bambini per Disney è inimmaginabile, e io sono un’eterna bambina in tutto quello che sento e faccio. Quando sono andata per la prima volta a vedere La carica dei 101 sono rimasta abbagliata. Tanto che non sono uscita dal cinema; anzi, ho fatto dei capricci incredibili. L’ho rivisto una seconda volta lo stesso pomeriggio e, di seguito, ancora per sette volte. È come gli Uffizi o un David. La Sindrome di Stendhal ce l’ho avuta con La carica dei 101. Disney è arte vera. Per me rappresenta l’amore per gli animali e per i sentimenti. Nutro una forte passione per i cani: mia mamma, quando avevo 4 o 5 anni e sono stata operata di appendicite, mi regalò il primo cane. Da allora ne ho sempre avuto uno. Disney ha accompagnato tutta la mia infanzia. In passato c’è stato un momento di crisi nei cartoni disegnati a mano. La produzione era diventata costosa, le tecnologie non erano all’avanguardia come oggi. Dopo la morte di Disney, i cartoni non erano più gli stessi. Mi dicevo: ‘Oddio cosa è successo? Sono io forse che sono cresciuta?’. Poi è arrivata la Pixar. La tecnologia di Steve Jobs si è sposata con il talento di scrittori e registi straordinari. Il computer ha rilanciato il cartoon in tutto il mondo, senza barriere di età, genere, etnia”.

Il cinema è ancora un oggetto magico?
“Una volta ricordo di aver accompagnato mio padre a una conferenza. Lui portò con sé una macchina da presa. Era andato a tenere una lezione in una scuola e ha immaginato che gli studenti non avessero mai visto una macchina da presa. Gliela voleva mostrare. Quando è arrivato i ragazzi sono impazziti, si sono messi tutti attorno alla macchina guardando quello strano oggetto con enorme curiosità. Dopo un po’ papà si stizzisce. Aveva un’aria… Ha detto agli studenti: ‘Ragazzi, se uno scrittore vi viene a parlare e tira fuori la penna, voi state a guardare la penna? Non è la penna che scrive così, come non è la macchina da presa che fa il film’. La macchina è un oggetto magico ma chi fa i film sono talenti come Brad Bird, il regista degli Incredibili 2, o lo stesso Walt Disney”.

Che cosa ha imparato nel prestare la voce all’Ambasciatore per Gli Incredibili 2?
“Non conoscevo il modo in cui prendono vita i cartoni animati. Che sorpresa e che delizia. Quando mi hanno contattato da Disney/Pixar avevano bisogno di un piccolo ruolo. In Gli Incredibili 2 interpreto un ambasciatore che supporta e combatte per il bene dei Supereroi e la loro legislazione. Ho domandato: ‘L’ambasciatore parla per caso italiano? Deve avere un accento particolare? Devo cambiare accento?’. Da Pixar mi hanno detto solo: ‘Non devi cambiare nulla. Parla con la tua voce naturale’. Pixar è molto attenta al suono. Il suono è l’origine del cartone animato. Bird mi ha spiegato che dal suono della mia voce si intuisce che sono una persona che parla molte lingue. In effetti ne parlo quattro: francese, italiano, inglese, spagnolo. Mia madre cinque: da ragazza parlava svedese, francese e tedesco come la nonna. Ha imparato l’inglese a scuola e l’ha perfezionato a Hollywood. A 30-35 anni, quando si è innamorata di mio papà, ha imparato l’italiano”.

Che cos’altro le ha insegnato il regista Brad Bird? 
“Mi ha detto: ‘Ho bisogno di un ambasciatore di cui non si sappia da che Paese provenga. Deve essere una persona stile Nazioni Unite, una potente della Terra che riesce a convocare tutti i presidenti con una telefonata’. Ho trascorso un pomeriggio in studio con lui e si è presentato così: ‘Stiamo finendo il film, abbiamo bisogno di queste battute per l’ambasciatore. Certi dialoghi sono fissi, altri li vorrei improvvisare assieme a te’. E così ho improvvisato battute e grida di qualunque sorta. Funziona così: prima gli ingegneri prelevano il suono poi disegnano e calcano direttamente sulla voce. Ho urlato immaginando di cadere dall’alto al basso o di essere sparata dal basso in alto. Divertentissimo. I suoni ispirano i dettagli del disegno: se in un mio urlo affiora esitazione, cambia il disegno del cartone e va ad aggiungersi alla composizione finale. A proposito di Bird, è espressivo come un cartone animato, una esagerazione dell’umano. Per me è uno dei supereroi Pixar che ha preso sembianza umana per poter fare il regista a Hollywood”.

Come ha reagito la sua famiglia alla notizia che avrebbe prestato la voce a un personaggio Pixar?
“I miei figli adolescenti, quando ho detto ‘Mi ha chiamato Pixar’ hanno avuto molto più rispetto di me come mamma (ride). Fellini diceva: “Walt Disney è un punto di riferimento, una costante. Magico come la neve”. All’ultimo film Disney/Pixar Coco quest’anno, in famiglia, l’età oscillava dai 3 anni a mia figlia incinta e la nonna. Tutti hanno provato la stessa emozione. Questi film hanno una forza di comunità che altri film non hanno. Parlano a qualsiasi generazione. E sono distribuiti in tutto il mondo. Ho appena finito di doppiare Gli Incredibili 2 in italiano, il capo dei doppiatori mi ha detto che il suo gruppo lavora in 42 lingue. Che cosa altro al mondo ci accomuna così tanto, oltre a Disney? La politica, forse. Sicuramente a molti politici piacerebbe avere lo stesso potere di Disney e mettere tutti d’accordo. Ho visto qualche anno fa una bellissima mostra al Grand Palais des Champs-Élysées, Il était une fois Walt Disney, con tutti i riferimenti e le ispirazioni di Disney. Dalla pittura della Bavaria al rapporto con Salvador Dalí che, non a caso, diceva che Disney è uno dei grandi surrealisti. Dalí e Disney hanno tentato anche di fare un film insieme. Uno degli esempi di ispirazione disneyana è il film commissionato, nella scenografia, a Dalí da Hitchcock: Io ti salverò. Il film di mia madre. C’è una sequenza onirica che nel film è stata tagliata. Nella mostra invece è possibile recuperarne 15 minuti. Era come un sogno a occhi aperti, a metà tra irrazionale e puro simbolismo. Da quel film è scaturita in Disney la voglia di lavorare con Dalí. Poi non si è mai concretizzata”.

Vive più nel sogno o nella realtà?
“Vengo dal neorealismo, grazie al mio papà. David Lynch, un uomo con cui ho condiviso tanto, è più surreale, come il film che abbiamo fatto insieme, Blue Velvet. Papà e David hanno una cosa in comune: l’originalità. Hanno sempre fatto film personali. Amo la loro voglia di dar voce a un proprio talento, a una propria visione. Io ero abituata all’originalità di mio padre, per me imbattibile. Quando vedevo un altro uomo che aveva spina dorsale allora mi sentivo a casa. In Pixar senti proprio questo: l’originalità e l’artigiano. I loro non sono film commerciali ma artistici. E arrivano a tutti”.

Si sente a casa a New York?
“Ci sono venuta per la prima volta per migliorare l’inglese. Sono rimasta perché mi sono innamorata di un americano poi ho sposato Scorsese e ho fatto figli. In America si riescono a realizzare i sogni più facilmente che in Europa. Non credo che avrei potuto fare la modella, l’attrice, la scrittrice, la regista, la contadina se non fossi stata in America. Ti permette uno sperimentalismo, una imprenditorialità fuori dal comune. All’inizio avevo sempre paura di fare brutta figura: la paura tiene noi europei un po’ troppo ancorati al terreno. Qui invece le cose si fanno, poi se vanno bene o male poco importa. Si ritorna in piedi”.

Lancôme l’ha scartata vent’anni fa e oggi la richiama come modello di bellezza. Perché ha detto sì?
“La loro è la storia di rifiuto più bella che mi sia capitata. Ne parlavo con la nuova direttrice creativa, Lisa Eldridge. Le ho detto: ‘Chissà se fossi stata tu la direttrice vent’anni fa’. Sono contenta di essere stata mandata via e poi ripresa dopo vent’anni. A noi donne diverte pasticciarci con i trucchi, mettere le creme, amiamo il gioco. Il trucco fa parte della mia vita privata e di quella professionale. La cosmetica è proprio un gioco, e anche lo specchio della società: la donna si è evoluta, si è emancipata. Lancôme ha 85 anni, una quarantina io li ho seguiti giorno per giorno da vicino. Vedere come hanno ritratto le donne, come hanno raccontato i loro sogni attraverso il make-up è interessante. Le donne emancipate non vogliono più essere ritratte come oggetto sessuale, vogliono essere sofisticate, eleganti, forti. Esprimere altri valori. Non è che non vogliamo più essere sexy, però in noi convivono altre qualità che prima non erano espresse”.

Lei ha dichiarato che l’adozione è un atto romantico. Che cosa intendeva?
“In Italia è proibita sia l’adozione a coppie gay sia l’adozione al singolo. Lo trovo sbagliato. Capisco che la preoccupazione arrivi dalla volontà di proteggere i bambini ma la realtà è diversa. Soprattutto tra noi italiani, l’immigrazione ha creato tante vedove bianche, i bambini sono cresciuti con mamme senza papà, o bambini di militari che spesso crescono con un genitore e non con l’altro. Quello che conta è amare. Penso che sia le coppie gay che i single possano adottare. Io vengo da una famiglia con 6 fratelli. Li ho sempre adorati, i genitori li ho persi quando ero relativamente giovane. I miei fratelli erano una enorme consolazione. Quando a 40 anni mi sono ritrovata con una figlia, sola, senza marito, mi sono detta: voglio un altro bambino, almeno un altro. Voglio che anche mia figlia abbia una sorella o un fratello. In America era possibile adottare da single e l’ho fatto”.

“Quando ho adottato mio figlio, sì, c’era un aspetto romantico nell’atto di adottare. Tutti parlano dell’adozione allo stesso modo: ‘Non sei fertile. È un ripiego’. Credono di sapere cosa si provi. Io invece ero fertile ma senza marito. Così ho adottato Roberto. Ricordo una dimensione emotiva potentissima nell’adozione. Tanto che io non riesco a vedere l’inizio di Dumbo: è straziante. I miei genitori non mi hanno spiegato, da piccola, come si fanno i figli: si vergognavano. Non me l’hanno detto. Io credevo alla cicogna. Quando il film Dumbo si apre con la cicogna che porta il leoncino ai leoni, l’ippopotamino agli ippopotami, la giraffina alle giraffe. Piango tutte le volte. Ho rivisto Dumbo che avevo appena adottato Roberto. Mi sono ricordata allora la mia visione di diventare madre. Lo avevo immaginato proprio così. L’idea della cicogna è molto più vicina all’idea del bambino adottato che al bambino che ti fai con la tua pancia. Nella mia biografia Some of me, lo spiego così: quando ho adottato, mi sono sentita arrivare fino all’origine, ho sfiorato  – letteralmente – Adamo ed Eva. L’adozione è come un abbraccio più lungo: anziché abbracciare i miei geni, sono arrivata dritta fino ad Adamo e Eva, e ho abbracciato l’umanità intera. Come ha fatto Walt Disney, dal suo primo tratto di matita a oggi”.

 

LaRepubblica.it

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