Una famiglia mostruosa, la recensione del film in prima tv su Sky

Massimo Ghini, Lucia Ocone, Pasquale Petrolo alias Lillo, Ilaria Spada, Paolo Calabresi ed Emanuela Rei in una commedia dalle venature fantastiche diretta da Volfango De Biasi (L’agenzia dei bugiardi). In prima tv su Sky lunedì 20 giugno

Arriva sui nostri schermi La famiglia mostruosa di Volfango De Biasi, “monster-movie” innestato sul ceppo della commedia all’italiana. Una tipica commedia sentimentale degli equivoci di tipo coniugale di cui la storia del cinema italiano è piena zeppa, da Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi fino al recente Compromessi sposi, in cui si suppone che dei nostrani Romeo e Giulietta si amino di vero amore a dispetto dell’incompatibilità dei rispettivi genitori. Il fatto è che qui, però, uno dei due promessi sposi è figlio di un vampiro e di una strega, oltre che nipote di uno zio zombie e di una nonna fantasma.

L’evidente “reference” degli sceneggiatori – che oltre al regista sono Tiziana Martini, Filippo Bologna e Alessandro Bencivenni – è La famiglia Addams, celeberrima serie-tv degli anni ’60 (allora si chiamavano ancora telefilm), tratta dai fumetti creati da Charles Addams, che ha più di recente dato vita a diversi lungometraggi prima in live-action e poi in stop-motion.

Se la strega di Lucia Ocone non è immemore dell’esempio di Morticia, anche la vampira in erba Salmetta di Sara Ciocca ha qualcosa del personaggio di Mercoledì. Invece il personaggio dello zio Nanni, interpretato dal come sempre bravissimo Paolo Calabresi, più che sulla falsariga dello zio Fester appare piuttosto ricalcato su quella del Frankenstein Junior di Mel Brooks. Infine – per dire del retaggio “all’italiana” – nei panni del conte Vladimiro dell’Oscuro Supplizio, Massimo Ghini sfoggia una erre moscia che lo fa terribilmente assomigliare a Giovan Maria Catalan Belmonte, il personaggio blasonato interpretato da Alberto Sordi ne I nuovi mostri, cui l’attore romano avrà probabilmente ripensato.

Film citazionista per definizione (ad un certo punto c’è persino un numero di ballo, in pieno stile musical, naturalmente sulle note di Tintarella di luna di Mina), la commedia di De Biasi paga anche il suo omaggio alla commedia sexy degli anni Settanta, con i camei di due alfieri di quel filone ieri bistrattato oggi da più parti, principalmente in Usa, rivalutato: Barbara Bouchet e Pippo Franco. Concludendo l’elenco di credits di un cast di grandissimo pregio, il gatto parlante Cagliostro ha la voce di Paolo Ruffini che si esprime nel suo dialetto, il livornese; lo specchio magico Sirio, “che risponde a ogni cosa, ma solo in rima non in prosa” è invece doppiato dal bravissimo Massimo Lopez

Ma dietro la superficie della fabula, vi è naturalmente una chiave di lettura metaforica. Lo dice chiaramente il conte Vladimiro: “Oggi noi mostri ci dobbiamo nascondere, sennò ci riprendono col telefonino e ci sbattono sui social”. Si intuisce, insomma, che dietro la patina umoristica della commedia si cela la sferzante satira contro l’emarginazione della diversità. Insomma, il tema attualissimo dell’inclusion versus le discriminazioni di razza, genere e credo; o contro il cosiddetto body shaming. Non solo, si affronta anche, sorridendo, un tema ancora più preciso: l’attrazione sentimentale ed erotica tra i diversi, che può essere un atout e non un ostacolo nelle scelte d’amore.

Al 41° del primo tempo, però, la storia subisce una brusca inversione di trama (e di temperatura comica): entrano in scena Lillo e Ilaria Spada (con annesso figlioletto), un’altra famiglia mostruosa: due supercafoni stile Piotta, un distillato puro di coattaggine romana che neanche le liriche di Franco Califano o le barzellette di Francesco Totti. Un pezzo di cinepanettone la cui paternità deve forse essere attribuita ad Alessandro Bencivenni, storico sceneggiatore di quel filone accanto a Neri Parenti. Un portato di comicità così enorme che il regista De Biasi decide di sottolineare la loro entrata in scena con le note enfatiche di Così parlò Zarathustra di Richard Strauss. Sono i genitori della sposa, tanto aborriti dalla medesima che li dava per morti! E si capisce: lui è Cornicioni Nando, ovviamente costruttore (sorry: “palazzinaro”): scialle vistoso, occhiali fumé ed eloquente aggiustamento degli attribuiti come carta d’identità. Lei è Stella: coda di cavallo king-size, completo color aragosta, unghie immondamente laccate e queste perle come presentazione: “Nun te lascià impressionà, i titoli noi ce l’avemo in banca!”.

E insomma, sarà la bravura degli interpreti, sarà che il popolano romano ha sempre fatto ridere da quando commedia è commedia (persino i film neorealisti contenevano talvolta dei siparietti comici in romanesco, di solito affidati a Memmo Carotenuto), da qual momento in poi il coefficiente comico del film si innalza esponenzialmente; con una serie di freddure “politiche” che attengono alle zone d’ombra del “palazzinaro”, frodatore seriale – ça va sans dire – della cosa pubblica. Ragioni di “no spoiler” ci impediscono di proseguire; ci si consenta solo di aggiungere che la sequenza finale, che è tutta giocata cogli stilemi del vampire-movie, regala un sipario inaudito: in un contesto che rimanda al cinema horror della Hammer Film Productions (quelli diretti per lo più da Terence Fisher con Peter Cushing e Christopher Lee), la Spada prorompe in un definitivo “’Cci sua!” (che per i non romani vale la forma abbreviata di un arcinoto epiteto ingiurioso teso a offendere i trapassati dell’offeso…).

Oltre che per la sfida di innestare un genere allogeno come l’horror nella nostra tradizione di commedia di situazione, Una famiglia mostruosa va lodato senz’altro indugio anche per aver provato a percorrere la strada della CGI, che in Italia è ancora poco battuta salvo qualche tentativo sporadico come il dittico di Salvatores su Il ragazzo invisibile. Anche qui c’è una donna invisibile, interpretata da Alessandra Scarci; e ancora: un gatto parlante, arti feriti che si rimarginano per magia, fiori freschi che come d’incanto appassiscono, scope volanti e tutto l’armamentario thriller\horror cui ci ha abituato il cinema made in Usa. Compreso il protagonista che quando si inquieta diventa un licantropo. Con effetti comici a catena inesauribili, talmente inesauribili che già si vocifera di un sequel in cantiere.

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