ItsArt, la Netflix della cultura italiana, ha le idee poco chiare

La piattaforma digitale per promuovere la cultura italiana cambia il terzo ad in meno di un anno. E sulla strategia industriale non c’è chiarezza

La Netflix italiana è partita e sta funzionando”. Così pochi mesi fa in un evento del Foglio il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini raccontava i primi vagiti della sua nuova creatura, It’s Art (o ItsArt). Una piattaforma incubata in tutta fretta nella prima parte della pandemia – le prime dichiarazioni risalgono all’aprile 2020 – rilasciata infine lo scorso anno e che arriva oggi al terzo cambio di amministratore delegato. Uno sfavillante esordio alla Very Bello.

Partecipata al 51% da Cassa depositi e prestiti (Cdp) e al 49% da Chili, ItsArt è stata lanciata lo scorso maggio con il più che condivisibile obiettivo di supportare il patrimonio artistico culturale italiano sull’onda delle drammatiche chiusure di teatri, palcoscenici, iniziative artistiche, musei e spettacoli in tutto il paese. La dotazione era, in partenza, di 30 milioni di euro totali. In realtà ne sono arrivati di meno: circa 6,5 milioni di euro versati da Cdp, 10 dal ministero dei Beni culturali e altri 6 da Chili. Che a ben vedere non ha sborsato un euro mettendo sul piatto, per un valore da perizia di 6 milioni precisi, la sua piattaforma tecnologica. E che prima del 2020 aveva inanellato otto bilanci consecutivi in rosso. 

La registrazione è gratuita ma la stragrande maggioranza dei contenuti è a pagamento. Per cui, non fosse inappropriato il continuo confronto di risorse e library, anche solo dal punto di vista tecnico l’appaiamento a Netflix o altre simili piattaforme di un modello pay per viewè fuori luogo. Eppure continua a essere scomodato dallo stesso ministro.

A quanto pare le poltrone vorticano, a ItsArt (che ha sede legale a Milano, allo stesso indirizzo di Chili, a cui sviluppo e implementazione sono evidentemente affidati): il 17 febbraio il consiglio di amministrazione ha infatti nominato Andrea Castellari nel ruolo di amministratore delegato. Un manager esperto con trascorsi ad alti livelli in Viacom Cbs, Discovery e Turner e in precedenza legato al mondo editoriale in Mondadori e Hachette Rusconi. 

Franceschini, insomma, ci crede. “La scelta del nuovo amministratore si inserisce nel percorso di diffusione e valorizzazione del patrimonio artistico e culturale italiano nel mondo e potrà consentire di perseguire il rafforzamento della crescita di ItsArt a livello internazionale con l’acquisizione di nuove partnership e l’apertura di nuovi mercati”, si legge in una nota. Le ultime partnership di cui si ha notizia per cercare di rimpolpare un minimo il catalogo sono quella con Cinecittà, in base alla quale gli storici studi cinematografici romani forniranno un accesso esclusivo all’Archivio storico Istituto Luce, e quella (pagata 1,8 milioni di euro) con Media Maker, società italiana specializzata nella produzione e distribuzione di contenuti audiovisivi. Sul fronte della library, insomma, si marcia a ritmo ridotto.

Castellari è il terzo amministratore delegato nel giro di nove mesi scarsi: il predecessore era Guido Casali, già in Sky (dove aveva curato il lancio dell’ottimo canale Sky Arte), alla Commissione europea, in Nexo fino all’esordio della piattaforma Nexo+. Difficile dire e capire cosa possa lasciare in eredità dopo quattro mesi di lavoro se non la disponibilità della piattaforma anche agli altri 26 mercati europei. In ogni caso, Casali si è dimesso a cavallo delle festività per “divergenze sulle strategie di sviluppo della piattaforma”, motivazione smentita poi dalla società che ha invece indicato ragioni personali. 

Prima di lui, nella fase di avvio, al timore c’era Giano Biagini, direttore generale di Chili, tornato al suo ruolo nella piattaforma che aveva d’altronde contribuito a co-fondare nel 2012 insieme, fra gli altri, a Stefano Parisi e a Giorgio Tacchia che è invece il presidente di ItsArt, nominato a ottobre in sostituzione di Antonio Garelli e lui, almeno, rimasto al suo posto (l’indirizzo, d’altronde, è lo stesso).

Di numeri su ItsArt, a dire la verità, ne circolano pochi. I più aggiornati, circolati proprio in occasione del lancio europeo al Colosseo, raccontano di oltre 100mila utenti registrati, con una discreta attenzione – c’è da fidarsi – riscontrata anche nel Regno Unito. Ma le registrazioni a una piattaforma in gran parte pay per view (dove sono però anche disponibili, come detto, contenuti gratuiti con o senza pubblicità) dicono poco dell’effettivo successo di un progetto. 

Se nel corso dei primi giorni dall’esordio qualcuno parlava di un “reskin di Chili”, a scorrere oggi il catalogo c’è da riconoscere un certo sforzo nell’arricchimento e nell’innalzamento del livello, specialmente sul fronte concertistico, dei documentari e dei progetti con i musei. A un pubblico clamorosamente smaliziato e abituato all’imbarazzo della scelta come quello attuale rimane inevitabilmente  la sensazione di trovarsi di fronte a un catalogo in fondo modesto nelle dimensioni (un migliaio di titoli), con prezzi in molti casi fuori mercato e con numerose sovrapposizioni con altre piattaforme gratuite come Rai Play.

Altre cifre erano state riportate dal Fatto Quotidiano e si riferivano ai primi sei mesi di attività, dunque da giugno a novembre: più di 1.960.000 sessioni in piattaforma, quasi 5,4 milioni di pagine visualizzate, più di 150mila utenti registrati e oltre 115mila ore di visione. Nulla sugli acquisti, sui costi, dunque sulla redditività. La “Chili della cultura italiana”, come l’avevamo appropriatamente ribattezzata per avvicinarla a ciò che effettivamente incarna, ha dunque ancora molta strada da fare. 

Nel continuo avvicendamento del management, restano appese moltissime domande. Fra queste, ancora non si capisce chi ci metterà la benzina per percorrere la strada che la renda come minimo una piattaforma conosciuta dagli italiani e con una library davvero importante. Poi quale siano il modello e l’offerta con cui vuole proporsi agli utenti (al momento, quand’anche si decidesse di noleggiare un contenuto, si spenderebbe spesso quasi quanto un mese di abbonamento su un’altra piattaforma) e perché quei fondi iniziali non siano stati mesi per esempio in uno spin-off di eccellenze e arti meno frequentate ma con un loro ampio seguito che si appoggiasse all’ottima Rai Play.

wired.it

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