Cecchi Gori pensa ad un remake del Sorpasso con Giallini e Favino

Il produttore riflette sul cinema, Weinstein e suo padre. Poi fa due eccezioni: non mi risposerei e non tornerei in politica

«Nella vita non avrei potuto fare altro che il cinema, perché l’ho respirato da sempre in casa. Ma la vera folgorazione la ebbi a nove anni quando mio padre mi portò sul set di “Napoletani a Milano”. Lì, dove Eduardo De Filippo mi teneva sulle sue ginocchia ossute fui conquistato dalla forza del cestino, dalle maestranze e dalla magia del cinema». “Cecchi Gori”, il docufilm su vita, opere, successi e discese di uno degli ultimi tycoon italiani, ha iniziato a prendere vita il 14 gennaio a Roma con il primo ciak, cui l’Agi ha assistito in esclusiva, nella casa su due piani ai Parioli dei genitori dove Vittorio Cecchi Gori, figlio unico, ha vissuto da bamboccione fino ai 40 anni, prima di sposarsi con Rita Rusic. E dove, nonostante il riscaldamento latiti, è tornato l’anno scorso dopo aver perso la sua storica residenza a Palazzo Borghese. Seduto su una sedia-trono posizionata davanti alla libreria su cui spiccano i tre Oscar di cui va più fiero (per La vita è bella, Il Postino e Mediterraneo) e i tanti David di Donatello, il produttore, oggi 76 anni, ripercorre davanti alla telecamera la sua vita privata e professionale sollecitato dalle domande dal regista Marco Spagnoli che dirige il docufilm con Simone Isola. I due ne sono anche autori, insieme a Emilio Sturla Furnò, per lunghi anni addetto stampa del produttore e a Giuseppe Lepore che lo produce per Bielle re. Il docufilm, che ha un budget di 250mila euro e per il quale Lepore ha chiesto l’interesse culturale ministeriale, sarà presentato al Festival di Venezia o alla Festa del cinema di Roma. E potrebbe essere propedeutico a una fiction, dove il duo Spagnoli-Isola vorrebbe come protagonista Alessandro Borghi (Isola ha coprodotto “Non essere cattivo” di Claudio Caligari, nel cui cast c’era l’attore): «Somiglianze fisiche a parte, Borghi ha gli stessi occhi azzurri di pieni di speranza di Cecchi Gori», chiariscono i due registi. L’idea del docufilm nasce da Lepore che, racconta all’Agi, l’aveva inizialmente proposto, nell’aprile scorso, all’ex moglie del produttore Rita Rusic, produttrice anche lei: «Ci sto già lavorando» l’aveva scaricato «sarà per un’altra volta». Si è rivolto quindi direttamente a Cecchi Gori, i due si sono incontrati e piaciuti. Il docufilm durerà un’ora e venti, le riprese si svolgeranno anche a Firenze e coinvolgeranno amici e colleghi dell’ex presidente della Fiorentina. Il docufilm punta a raccontare come Cecchi Gori rappresenti un pezzo di storia cinematografica, televisiva, calcistica e anche politica del nostro paese, nonostante oggi sia sotto i riflettori soprattutto per le sue vicende giudiziarie. Non per questo glisserà sulle sue varie disavventure (nell’ottobre scorso la condanna in primo grado a sei anni per il crac da 24 milioni di euro della sua Safin cinematografica è stata ridotta in appello a cinque anni e mezzo).

Vittorio Cecchi Gori, non teme l’effetto “coccodrillo”?

“Ma questo docufilm mica metterà il sigillo alla mia vita. Spero di fare tante altre cose. Vorrei dedicarmi a quello che so fare meglio, la produzione. In fondo non mi sono mai fermato, due anni fa ho coprodotto Silence, di Martin Scorsese, purtroppo non è andato così bene. I film vengono meglio quando io sono presente sul set. Sogno da tempo di riuscire a dare vita al remake de Il Sorpasso, pietra miliare del cinema prodotto da mio padre. Alla regia vorrei Marco Risi ma come attore non penso ad Alessandro Gassman, figlio di uno dei due protagonisti del primo film. Perché non bisogna cadere nell’errore di scimmiottarlo: i protagonisti potrebbero essere Pierfrancesco Favino e Marco Giallini. Giallini l’ho apprezzato parecchio in Perfetti sconosciuti, uno dei pochi film italiani che ultimamente ho ammirato. Ha una sceneggiatura molto buona, e oggi la causa della crisi del cinema italiano sta proprio nella loro debolezza. Noi avevamo nomi come Age e Scarpelli, ora mancano sceneggiatori forti…»”.

Un docufilm autobiografico porta inevitabilmente a tracciare un bilancio, c’è qualcosa che non rifarebbe rispetto alla sua sterminata produzione cinematografica?

“Rifarei tutto, perché anche se bisognava proprio essere innamorati del cinema come me e mio padre per spendere soldi come abbiamo fatto noi. Oggi i produttori si mettono in gioco soltanto quando hanno la certezza di guadagnarci. Per La voce della luna di Fellini ho buttato via tanti soldi, ma oggi sono più che contento di aver prodotto l’ultimo suo film, quando nessuno voleva farlo. Il regista andò da mio padre e gli disse: «Mario, lo so che tu l’avresti evitato, ma ti ha fregato tuo figlio…»”.

E rispetto alla sua vita extracinematografica, cos’è che non rifarebbe, considerando anche i guai in cui è finito?

“Anche se delle cose non funzionano, tutto fa parte della filiera della vita. Io ho fatto di tutto per difendere il cinema, anche in tv ci capivo, non per niente sono stato il primo a portare in Italia Sex and the city, poi purtroppo sono incappato nei poteri forti… Sono stato anche senatore del Partito popolare Italiano, se c’è una cosa della mia vita che non rifarei forse è proprio la politica”.

Cosa pensa del governo gialloverde?

“Ho fiducia in loro, le intenzioni sono quelle giuste, del resto gli altri quando hanno avuto le loro occasioni hanno dimostrato di non essere all’altezza”.

La sua situazione sentimentale attuale?

“Oggi sono single, anche se non sarebbe difficile fidanzarsi, volendolo. Ma anche se incontrassi la donna ideale non mi risposerei mai. Di matrimonio ce n’è solo uno nella vita (quello burrascosamente fallito con Rita Rusic da cui ha avuto due figli ndr) e io poi io una famiglia allargata non saprei proprio come gestirla. Forse perché fino ai 40 anni ho vissuto con mio padre e mia madre e mi sono sempre più sentito figlio che genitore”.

Tra i tanti suoi amori glamour del passato chi le è rimasto nel cuore?

“Il posto d’onore lo occupano Maria Grazia Buccella che oggi è una mia grande amica e ad Ornella Muti, con cui ebbi una breve storia. Mia madre tifava perché diventasse mia moglie. Mi diceva: “Tanto lo so che finirai per sposare un’attrice, fallo con la Muti che mi sembra la meno peggio””.

Il film a cui è più legato qual è?

“Vado fiero del fiuto che ho avuto per La vita è bella. Quando Benigni mi venne a raccontare la sua idea avrei potuto pensare che raccontare l’Olocausto in forma di fiaba sarebbe equivalso a bestemmiare. Invece chiamai subito Hervey Weinstein con cui avevo vinto l’Oscar per il Postino, che lui distribuiva e gli dissi: questo film di Benigni di Oscar ne vincerà tre, come poi è stato”.

Come giudica oggi Weinstein, travolto dal #MeToo?

“Fa parte delle tante persone che sono professionalmente ineccepibili ma mariuoli nella vita privata. Ogni tanto mi chiedeva di far lavorare qualche attrice, ma in generale nel cinema la verità sta nel mezzo: esistono ragazze che prestano il fianco a personaggi trasgressivi e personaggi trasgressivi che non capiscono che tante donne non sono disponibili a scorciatoie. Io non l’ho mai fatto, per me sarebbe molto deprimente sapere che una donna sta con me soltanto per ottenere una parte”.

Ma suo padre Mario, il produttore che le ha insegnato tutto, cosa pensava di lei?

“Agli amici diceva: so che Vittorio è un fuoriclasse ma so anche che non bisogna dirglielo mai. Questa è la frase che racchiude il rapporto con mio padre”.

Antonella Piperno, Agi

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