Maurizio Costanzo: «Dopo 45 mila interviste vorrei diventare cavaliere»

Pensa alla morte?
«Sì, ma non è che ci penso adesso che ho fatto 80 anni, ci ho sempre abbastanza pensato, non con spavento. Mi preoccupa perché mi spiace lasciare le persone a cui voglio bene, non per me: il dolore sarebbe quello».

Per Marcello Marchesi l’importante è che la morte ci colga vivi.
«Sì è vero, è così. Marchesi 45 anni fa fece da padrino di battesimo a mia figlia Camilla».

Crede nell’aldilà?
«Penso che dopo qualcosa ci sia, non credo in Dio. Quando non ci sarò più, so che avrò incontrato di nuovo mio padre e mia madre».

Li va a trovare al cimitero?
«No, ma per andare alla Voxon, dove registro il Maurizio Costanzo Show, passo accanto al Verano e non c’è volta nell’andare e tornare che io non pensi a loro. Il culto dei morti non è sulla tomba, ma dentro di te».

La prima immagine felice con suo padre.
«Me ne ricordo altre… Quando era malato, cominciavo a fare il giornalista, andai a trovarlo all’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e gli dissi: “Sai papà, ho cominciato a scrivere su questo giornale” e lui “Sono contento”. Questo è un mio rammarico assoluto: non ha visto quello che ho fatto, mamma sì. I personaggi indimenticabili sono il padre e la madre: da lì nasciamo, non c’è niente da fare. Io mi arrabbio con chi litiga con la madre: magari ce l’avessi ancora…».

Cos’ha ereditato dai suoi genitori?
«Da mio padre sicuramente l’ironia, da mia madre il fatto che mio nonno, friulano, da giovane voleva fare il giornalista. E siccome io credo nel Dna…».

Maurizio Costanzo è un signore pieno di garbo, espertissimo d’interviste, s’intende, capace, con il gesto semplice di offrire una caramella, di cambiare argomento quando serve. Studio romano nel rione Prati, pareti tappezzate con foto di nipoti e personaggi che ha incontrato, in bella vista la laurea honoris causa dello Iulm in Giornalismo, editoria e multimedialità, la scrivania assediata da tartarughe: «Ne ho più di cinquemila, ne presi anche una viva, che tenevo al Parioli in una scatola con la terra, ma dovevo starle antipatico perché quando mi vedeva si nascondeva: l’ho dovuta dare allo zoo». L’occasione per incontrarci è l’uscita del suo nuovo libro Mondadori, Il tritolo e le rose, che si apre con una lunga dichiarazione d’amore a Maria De Filippi, sua moglie da ventitré anni. Ma di questo parleremo dopo.

Mi diceva del Dna.
«L’ho trasmesso a Saverio, lo vedo. Sono un suo fan accanito. Adesso incrocio le dita per questo debutto dell’Amica geniale, Elena Ferrante ha voluto proprio lui come regista».

Riconosce il Dna in suo nipote Brando?
«Viene il più possibile dietro le quinte del Costanzo Show. Sì, io spero nel Dna».

Quanti anni hanno i suoi nipoti?
«Brando 14, Nina 8, Bernardo 8 e Tito 11».

Come si sente quando sta con loro?
«Mi piace, mi dà un senso di futuro. Poi devo dire una cosa banale, ma i figli di mio figlio portano avanti il cognome».

Un ricordo di sua figlia Camilla, avuta con Flaminia Morandi, come Saverio.
«La vedo piccolissima che battaglia con me perché le avevo spostato un gioco, con una forza tale che dissi: “Promette bene, questa…”».

Un ricordo del fratello.
«Avrà avuto dieci o undici anni, c’era una mia commedia a teatro e noi eravamo seduti dietro in platea. Il pubblico rideva e lui mi chiese: “Se la gente ride sei orgoglioso?”».

Un ricordo di Gabriele, adottato nel 2002.
«Beh, con lui c’è grande complicità… Cerco di farmi raccontare i suoi amori se non ci arriva prima la madre».

Maria De Filippi. Ha dedicato a lei il primo capitolo del nuovo libro.
«Ci siamo conosciuti a Venezia, ero andato durante la Mostra del Cinema per un dibattito sulle videocassette. Era venuta a prenderci all’aeroporto, faceva l’avvocato. Ci ritrovammo a pranzo con altri».

Non fu galante, le chiese di sedersi più in là.
«Mi parve subito intelligente, infatti le diedi la possibilità di lavorare con me a Roma. Iniziò a fare questo lavoro. Poi cominciò la nostra storia».

Andò abbastanza presto a conoscere i suoi genitori, nel Pavese.
«Purtroppo sono mancati ambedue. Il padre fu molto carino con me, mangiammo insieme: in qualche modo lo rassicurai sul fatto che mi stavo separando, come è stato. Dopo la sua morte, la madre è venuta a vivere con noi a Roma. Una famiglia semplicissima, come la mia di origine, del resto: bello. Tra poco con Maria facciamo le nozze d’argento».

Quattro mogli e una convivenza. Le donne le conquistava per talento o per sfinimento?
«Spero per talento. Ma sa, malgrado l’aspetto sono sempre stato fortunato con le donne, in genere sono meglio degli uomini: più intelligenti, sensibili. A una donna posso raccontare un segreto, a un uomo non mi viene».

A proposito di ex, ora che ha 80 anni è riuscito a perdonare Marta Flavi, con cui il divorzio fu burrascoso?
«Non ci parlo. Chi è? Guardi, con Simona Izzo, che non avevo sposato, ho un ottimo rapporto; con la madre dei miei figli, pure. La mia prima moglie, Lori Sammartini, più grande di me di una quindicina d’anni, è morta nel ‘71, mi avvisarono mentre ero in radio che facevo Buon pomeriggio. Grande fotografa, mi fece conoscere lei Flaiano. La sentivo spesso…».

Qual è stato il giorno più bello, e quello più brutto, della sua vita?
«Il più brutto il 14 maggio 1993, quando la mafia mi dedicò 70 chili di tritolo mentre tornavo a casa in macchina con Maria. Il più bello è stato accorgerci che eravamo vivi».

Perché lei?
«Io faccio il giornalista, avevo molto parlato di mafia al Costanzo Show e la mafia si è difesa. Arrivavano lettere con la mia testa in un vassoio, le mandavo alla Digos».

È ancora sotto scorta?
«Sì, ora mi seguono due persone, prima quattro. Sono diventati dei parenti, per me».

Il ministro dell’Interno Salvini ha lanciato un piano taglia scorte.
«Il mio nome, in campagna elettorale, non è mai stato fatto. Penso che ogni persona con la scorta sia diversa. Sono l’unico tra tutti i minacciati che ce l’ha fatta a sopravvivere».

Ha un telefono antichissimo.
«È un Nokia. Avevo scritto a Stoccolma in fabbrica, perché hanno smesso di farli. Un mio amico carinamente me ne ha comprati quattro. Ho calcolato che ce campo».

Quanti numeri ha in rubrica?
«Una quindicina: Maria, i miei figli, una delle segretarie, il mio avvocato, una collaboratrice di mia moglie che lavora anche con me…».

A proposito di avvocato. Perché non ha mai querelato Riccardo Bocca, che nel ‘96 le dedicò un libro al vetriolo?
«Ne ho un po’ sofferto. Potevo andare in trasmissione, parlare del saggio e smontarlo. Non l’ho fatto per non dargli visibilità».

L’ha più sentito? Le ha chiesto scusa?
«Sì, ci siamo risentiti e no, non mi ha chiesto scusa». Prende la cartelletta nera alla sua sinistra, la apre e mostra un articolo dell’Espresso. «Ma l’anno scorso ha scritto un pezzo in cui mi faceva gli auguri per i miei 79 anni. E che devo vole’ di più?»

E per gli 80 chi le ha fatto auguri inattesi?
«La novantunenne Gina Lollobrigida mi ha chiamato sul cellulare il 28 agosto a mezzanotte e cinque. Quella donna è pazzesca…».

Ha contato quante persone ha intervistato?
«Una volta ne avevano contate 45 mila».

Di quale intervista è più orgoglioso?
«Sono orgoglioso di aver fatto chiudere una fabbrica di mine antiuomo, con Gino Strada: ottenni l’impegno a far ricollocare gli operai».

So che vorrebbe intervistare Papa Bergoglio.
«Sarebbe un grande regalo di carriera».

Quale domanda gli farebbe per prima?
Riprende la cartelletta nera. «Ce l’ho qua, devi mandarle mesi prima. Eccola: “Con riferimento ai suoi nonni, cosa ha pensato dopo il conclave quando ha saputo che sarebbe venuto in Italia come Papa?».

Dei politici che ha incontrato a quale riconosce maggior spessore?
«Mi ha sconvolto Andreotti, era ironico. Una volta mi disse: “Lo sa che al Tasso due miei compagni di scuola sono diventati cardinali?”. Pausa. “Hanno fatto carriera, loro…” Come se lui fosse un poveretto!».

Non abbiamo parlato della P2?
«Può sfumare?».

Certo. Però vorrei chiederle: rifarebbe l’intervista con Giampaolo Pansa in cui ammise: «Ho fatto uno sbaglio, da vero cretino»?
«Sì, anche se sono l’unico. Se potessi tornare indietro non mi iscriverei alla P2».

Non ha mai ricevuto onorificenze. Quale le piacerebbe?
«Ho lavorato molto, forse cavaliere del lavoro».

Quando ha mangiato l’ultimo bigné?
«Il 19 marzo, per San Giuseppe».

E se telefonando…
«Mi ricordo finché campo una saletta e un pianoforte in via Teulada, Morricone fa sentire la melodia, Mina gli prende il foglio e prodigiosamente la canta. Ancora oggi ricevo royaltiesda tutto il mondo ed è l’unica canzone che ho scritto».

Oggi ci si lascia davvero per telefono.
«E, ma allora no. Cinquantadue anni fa».

Elvira Serra, Corriere della sera

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