Sergio Castellitto, il declino di D’Annunzio: «Non c’è personaggio più amato e odiato di lui»

L’età che avanza, gli acciacchi, i vizi, le donne, la cocaina che lui, incurante, inala sotto gli sguardi di chiunque sia lì. E una rassegnata malinconia che sfocia in uno stato depressivo. Il cattivo poeta (per 01 in 200 copie) racconta l’ultimo anno di vita di Gabriele D’Annunzio. Un film storico che, dice il regista Gianluca Jodice, si basa «in maniera filologica su lettere, diari, documenti. Ci siamo confrontati con gli storici». «Non c’è stato artista così amato in vita, paragonabile a una rockstar, e così maledetto e odiato in morte», dice colui che gli dà il volto, Sergio Castellitto. L’attore ha il cerino in mano e si diverte quasi ad accenderlo, appallottolando i vecchi giudizi dell’intellighenzia di sinistra: «Elsa Morante diceva che era un imbecille, per Arbasino era un cadavere da conservare in cantina, Pasolini lo detestava. Ma poi c’è il dono che può fare il cinema, anche se io l’avevo capito prima che D’Annunzio era un genio. Se c’è una figura assimilabile a lui è proprio Pasolini, il poeta soldato che incarna nel proprio corpo la vita, la rabbia, la morte». Compone la sua trinità di scrittori aggiungendo Curzio Malaparte, «fascista della prima ora, poi spirito critico, polemico. Sono passati quasi cento anni eppure entreremo dentro polemiche, il fascismo, la Meloni…Io penso a chi ha appena imbrattato la sua statua a Trieste, siamo messi male».

Arriva l’applauso, raro per un debutto, benché tardivo. Il napoletano Jodice a 48 anni ha girato il suo primo film «ambizioso, inattuale, fuori dalle convenzioni», sull’inverno di un poeta e di una nazione: «Un antitaliano e un arcitaliano, aveva etica e allo stesso tempo era un figlio di buona donna che scappava per debiti».Nel film il duce non si fida più del poeta, così il suo mediocre pretoriano Starace affida al più giovane federale d’Italia, Giovanni Comini, il compito di spiare il Vate al Vittoriale, dove, lontano da tutti, si è rinchiuso da 15 anni, e non scrive da tanto tempo. «L’esilio è il castigo della mia devozione», dice D’Annunzio, sente trascurato, dimenticato, il patriota dell’impresa di Fiume «elogiata da Mussolini ma non mosse un dito». «Un poeta recluso nel castello di Dracula tra ossessioni e perversioni, una specie di Nosferatu», dice Jodice.

Come si è preparato Castellitto a restituire l’ultimo D’Annunzio e la sua iconografia, il bastone, le vestaglie, le uniformi, i guanti bianchi, le pantofole leopardate? «Tagliandomi completamente i capelli, mi sono preparato così, conferendo a questo gesto non solo un’identificazione fisica. Se chiudete gli occhi e pensate a D’Annunzio, la prima immagine è il cranio, che andava offerto nella sua nudità. Vuoto di capelli ma pieno di sapienza, immaginazione, crudeltà». Ha puntato sull’essenza, con l’adrenalina che via via evaporava, «del resto tutta la vita è togliere e non aggiungere, è tutto un levare».Il Vittoriale fa da cornice magnifica fra tendaggi, statue, quadri, gli oggetti appartenuti al grande seduttore; è il luogo che sintetizza tutto ciò che è stato, bellicità e desiderio di vita; è la mappa geografica della sua anima.

In quelle stanze incontra la giovinezza di Comini, presto diviso tra la fedeltà al regime ormai vicino alla guerra e la fascinazione per il poeta. Il quale, vedendo il film, esce (quasi!) come un partigiano, i suoi giudizi contro «le sordide camicie nere», condannato «ai lavori forzati dell’eloquenza, avverso al nazismo e a Hitler, da lui definito «ridicolo nibelungo», mentre il duce liquida la sua «corte circense. D’Annunzio è come un dente guasto: o lo si ricopre d’oro o lo si estirpa». Ma gli artisti sono artisti, e il Vate il dente avvelenato lo aveva anche per i fondi speciali negati per il restauro della sua lussuosa residenza affacciata su un lago che lui nei suoi eccessi vede come un oceano. Comini, che fu espulso dal partito per aver riportato dubbi del popolo sul nazismo, è interpretato da Francesco Patanè, il cui incarico ai provini, rivela il produttore (con Rai Cinema) Matteo Rovere, consisteva nel porgere le battute ai candidati, faceva la spalla. «Ci siamo accorti che lui era il più bravo di tutti. Il film è un punto di vista diverso su un personaggio controverso, protagonista del ‘900 asfaltato per il legame col fascismo». Il titolo del film, spiega il regista, è ironico: così si definì D’Annunzio in una lettera, e poi rimanda al cattivo maestro che sarebbe diventato nel dopoguerra dei rossi e neri.

Valerio Cappelli, corriere.it

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