FRANCESCO DE GREGORI: «PREFERISCO NON SAPERE»

Non disdegna i selfie e va ospite ai talent. Su certe cose, ask però, search non ha alcuna intenzione di cambiare idea. Per esempio sulle feste, sulle tentazioni e sulla coppia. Anche perché al suo idolo Bob Dylan ha rubato la formula dell’amore perfetto. E, con sua moglie, la applica da 40 anni

Musica: De Gregori a Palermo e Catania con 'Vivavoce tour'«Mi aspettavo una vecchia signora», mi dice Francesco De Gregori. Da uno che fa molto poco per compiacere il prossimo, lo prendo come un complimento. Siamo in una saletta fumatori di un ristorante romano. Dopo una pausa di vent’anni, da qualche tempo ha «felicemente » ripreso a fumare. Gauloises senza filtro.
«Non sono salutista. Una volta, al ristorante con Gianni Morandi, ho ordinato una mozzarella. “Ma che fai?”, mi ha detto. “Io non mangio più latticini, fanno male”».
Sulle tovaglie di ristoranti come questo ha composto molte delle sue canzoni. «Non mi vedrà mai reclino a scrivere nel mio studio. Il mio è un lavoro di osservazione, meditazione, autoflagellazione che si svolge nell’arco delle 24 ore senza regole. Il che mi porta a riuscire a lavorare anche nel mezzo del casino più efferato».
Il 5 marzo ripartirà in tour. Dice che ogni concerto sarà un po’ un unicum: la scaletta cambierà di sera in sera. «Cinque, sei canzoni del nuovo album, non di più perché non sono sicuro che la gente voglia ascoltarle tutte. E anche i pezzi dei dischi precedenti li sceglierò di volta in volta. Se ogni sera so che dopo Generale verrà Rimmel, diventa una routine».
Che ricordi ha delle primissime volte sul palco?
«Be’, per esempio, la soddisfazione di superare le aspettative. Come quando feci una tournée con un gruppo che si chiamava Il Volo (nato nel 1974 dalla scissione della Formula 3, era composto, tra gli altri, da Alberto Radius, Mario Lavezzi e Vince Tempera, ndr). Partimmo che io facevo la spalla, aprivo i loro concerti. Ma, alla fine, i ruoli si erano invertiti, perché veniva più gente per me che per loro. Sembra cattivo dirlo, ma è la verità. Per uno che pensava di essere avviato a una vita professionale più seria, che so, diventare professore o giornalista, fu piacevole e stupefacente».
Le sarebbe piaciuto fare l’insegnante?
«Sì. Mia madre era una professoressa di italiano, latino, storia e geografia alle medie. Mio padre, un bibliotecario».
Dylan ha detto che per amare qualcuno non bisogna per forza sapere tutto e capire tutto. Vale anche nella vita?
«Capire gli altri è un’impresa folle, e anche una pretesa arrogante. Non si conosce mai un altro essere umano. Voler spiegare qualcuno lo trovo un atto di violenza. E invece, siccome io non voglio appropriarmi di te, rinuncio anche a voler sapere tutto. Quello che appare mi basta, oppure no, e allora non mi interessi. Sembra un po’ altisonante a dirlo ma, in un certo senso, non conosciamo neanche noi stessi. Ognuno di noi ogni tanto fa qualcosa che non si sarebbe mai aspettato».
Lei si sarebbe aspettato un matrimonio che si avvia verso i quarant’anni?
«Non mi sono mai chiesto quanto potesse durare. E, comunque, non va neppure bene che uno si sposi pensando: “Che sorpresa se va avanti per tanto”. L’ho fatto perché ero innamorato. Quindi, ero assolutamente convinto che saremmo rimasti insieme. È così strano?».
Di matrimoni finiti in giro ce ne sono parecchi.
«In effetti, tra i miei amici molti non stanno più insieme. Diciamo che, dal punto di vista statistico, dovrei stupirmi».
Tanto più uno come lei, che sarà stato esposto a tentazioni.
«Mi sa che lei ha un’idea mitologica del cantante circondato da ammiratrici. Capita se “cavalchi” la situazione. Ma io non sono quel tipo di uomo. Lo troverei troppo prevedibile».
Che rapporto ha con i selfie?
«Non cattivo, a meno che non ti venga richiesto in un momento inopportuno. Tipo che stai tornando da un viaggio faticoso, con le valigie e la chitarra in mano, e uno ti chiede: “Facciamo un selfie?”. Ma lo vedi in che condizioni sono? Sennò va bene, in qualche modo fa parte dei miei doveri. A volte, è anche piacevole. E se vengo brutto, chi se ne frega».

di Enrica Brocardo, Vanity Fair

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