Franco Battiato: perché è stato un rivoluzionario della musica

Si può essere estremamente pop ed estremamente colti? Si può coniugare l’alto di una citazione filosofica, di un luogo mitologico al basso di un dancefloor di una discoteca e di una sagra di paese? Fino al 1981, avremmo pensato che sarebbe stato impossibile, di fronte al netto steccato, un muro elevatissimo che fino allora divideva il cantautorato più impegnato e intellettualista dal novero del nazionalpopolare più spiccio.

Fino al 1981 appunto, quando uscì La voce del Padrone di Franco Battiato (morto oggi a 76 anni) , il disco monstre del siciliano: sette canzoni rivoluzionarie, una dietro l’altra, che introiettavano tutti i nuovi ritrovati dell’elettronica ( con cui Franco aveva sperimentato non poco negli anni precedenti) a testi ricercatissimi eppure ballabilissimi. E a una critica sulfurea di quel presente consumistico ed edonistico che si annunciava all’alba degli anni’80: di sinistra? Di destra? Franco non l’avrebbe mai dato ad intendere in termini di proclama, di sbandieramento, giocando sempre sull’equivoco (anche se poi, parlandoci due minuti in privato, non avevi dubbi sulla parte in cui stava, quella del cuore).

Non che non si fosse annunciata, negli anni precedenti, la rivoluzione: già dall’Era del Cinghiale Bianco, anno 1979, Franco aveva mollato i lidi della avanguardia assoluta, praticata negli anni precedenti di Pollution, le formule chimiche diventate strofe, ma era l’inizio di un percorso. Compiuto appunto con quel disco: la linea da allora era tracciata. I dervisci turneur, i treni di tozeur, i sintomatici misteri da misteriosi sarebbe entrati a far parte del linguaggio di ognuno accompagnando un viaggio a tappe nella memoria di Battiato, l’infanzia in Sicilia e poi l’arrivo a Milano con quella «linea tre che avanza» e regalandoci, oltre alla velocità della memorabile e anche amara lentezza, quella di Povera Patria o di Ti vengo a cercare: una rivoluzione «internazionalista», perché anche all’estero si sarebbero innamorati di lui (in Spagna era popolarissimo), scoprendo che la via italiana alla musica non era solo il neomelodico standard.

Franco pian piano elevato a padre nobile dell’alto-basso, della musica colta per tutti, avrebbe provato poi a benedire qualche erede che aveva tentato la stessa via negli anni a seguire (vedi per esempio Morgan con i suoi Bluevertigo), ma nessuno con la sua continuità e il suo status. Meno severo negli anni della vecchiaia, meno cattivo, ma non per questo meno lucido. Anche nell’addio, lento e silenzioso, nella sua casa sull’Etna, con l’ultimo struggente addio, un requiem quasi scritto per se stesso, come un novello Mozart. Come, sempre, appunto, rivoluzionario.

corriere.it

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