Paolo Rossi: «Sono un estremista di buonsenso, un giacobino non violento, ma se fossi operaio rischierei di essere leghista»

Un flusso di coscienza comico, onirico, magnetico, fatto di tante storie vere o verosimili, forse palesemente false. Paolo Rossi ci ha scritto un libro (Meglio dal vivo che dal morto, edito da Solferino, disponibile da giovedì). Paolo Rossi, che in un’assemblea, negli anni Settanta, ha proposto una mozione e poi ha votato contro. Paolo Rossi, che ha lavorato per Mediaset ma erano soldi del demonio e dunque li ha distrutti in un viaggio in Polinesia. Paolo Rossi, che riflette: meglio vivere da ubriaconi famosi che da alcolisti anonimi. Paolo Rossi, che si chiede perché San Paolo ha scritto tutte quelle lettere ai Corinzi. Ma soprattutto, perché i Corinzi non gli hanno mai risposto?

Verità o finzione, cos’è «Meglio dal vivo che dal morto»?
«Non è un libro autobiografico, è un modo di raccontare in cui non capisci mai quante verità ci sono. Non quante bugie. Ma quante verità… Prima di studiare teatro ho fatto sociologia, Goffman parlava della vita quotidiana come rappresentazione. Recitare ti salva la vita, ma la differenza è se sai recitare bene o male. Noi contastorie dobbiamo riflettere al giorno d’oggi perché c’è il pericolo che gli umani siano più credibili di noi con le loro finzioni».

Shakespeare è la sua Beatrice, la musa che ispira. Sulla fascetta che avvolge il libro c’è una scritta, «Non avrei potuto scriverlo meglio». Firmato Shakespeare.
«Shakespeare tra i contastorie è il dio dei ladri, è uno stimolo, un riferimento che mi accompagna da sempre. Circolano innumerevoli leggende su di lui, che fosse il filosofo Francis Bacon, o forse il drammaturgo Christopher Marlowe, addirittura che fosse una cooperativa di scrittori. Ne sono state dette talmente tante che magari ci becco io con la fascetta».

Lei piazza Hitler in paradiso e Gandhi all’inferno.
«È il gioco del senso inverso, il mondo alla rovescia mi affascina. Questo è un libro popolare, mi piace definirmi di Serie B, perché io voglio giocare in alto, ma in Serie B, mi trovo meglio e mi sento più a posto con me stesso. Il mio sogno è fare il Cammino di Santiago di Compostela, ma partendo dalla cattedrale, in senso opposto a quello dei pellegrini, così quando li incrocio gli rovino la sorpresa dell’arrivo. Come quelli che trovi all’uscita del cinema mentre entri e li senti dire: mah, pensavo meglio».

Dice che i «vincitori di sinistra non si vedono neanche nei sogni». Zingaretti ha concluso la sua parabola da Barbara D’Urso, Letta ha iniziato parlando di ius soli. È la luce in fondo al tunnel o un treno?
«Nella società dello spettacolo loro sono le star, la gente chiede più selfie a loro che a noi comici. Li considero dei colleghi, con un tocco di invidia perché lavorano più di me. Una battuta umoristica detta da loro in un talk show vale più di qualunque contenuto. La politica è un’altra cosa».

Riesce a essere ancora di sinistra?
«Sono un anarchico gentile, un estremista di buonsenso, un giacobino non violento, sono per la ghigliottina teatrale, con la lama che si ferma a due centimetri dal collo: se la fanno sotto lo stesso. Me lo posso permettere perché faccio questo mestiere. Se fossi un operaio…».

Sarebbe leghista?
«Forse rischierei, dovrei rifletterci. Per me essere anarchico è un dovere».

Scrive che il ministro Franceschini non ha attenzione per la cultura
«Lui privilegia i musei e non gli attori ma è giusto, perché le statue non devono pagare il mutuo e non rompono i coglioni, quindi ha ragione».

Davvero l’hanno scambiata per Nino d’Angelo?
«Sì. Un tassista a Milano: l’ho vista come attore, lasci perdere. È come cantante che… Ho tutti i suoi dischi. Poi non so se è andata proprio come l’ho raccontata, la vera opera d’arte è la vita che ti costruisci. Teatralizzare, drammatizzare, affabulare, non mi ricordo quali sono le spezie che ho aggiunto: quando si accarezza la verità, la bugia aiuta a renderla più reale».

Il politicamente corretto è la morte della comicità?
«È una posizione ricattatoria, io sono scorrettissimo, ma è come per la censura: non mi lamento e trovo il modo di aggirarla. Ho fatto uno spettacolo in cui c’erano degli attori africani, arriva uno e mi rimprovera: però gli hai fatto fare la parte dei neri…».

Ha l’aria di essere ateo, ma se Dio esistesse?
«Non sono ateo, sono spirituale, penso che Dio sia l’insieme di tutti i morti. I morti in realtà è gente che non muore, ma che se ne va: il problema è che non lascia detto dove».

L’incubo ricorrente?
«Niente di psicanalitico, niente di freudiano, nessun archetipo junghiano: il mio incubo sono valigie per la tournée. Ho disseminato l’Italia di calzini e libri».

La pandemia è passata dalla letteratura alla realtà…
«Quello che stiamo vivendo lo hanno intuito prima gli scrittori di fantascienza che gli scienziati, scrittori popolari, di Serie B, da Philip Dick in poi. Se uno dieci anni fa avesse detto: vedo l’Italia in zona rossa, un militare che organizza la sanità, il coprifuoco la sera. Beh, gli avremmo dato del paranoico. Ma a volte i paranoici hanno ragione. È per questo che la psicanalisi andrebbe rifondata».

Renato Franco, corriere.it

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