MORTO DEREK WALCOTT PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA

Ottenne il riconoscimento nel 1992. È considerato il più grande lirico dei Caraibi, tra i suoi lavori «In A Green Night: Poems 1948 – 1960» e l’opera epica «Omeros»

Sono stati pochi, negli ultimi decenni, i poeti che hanno tentato di scrivere una poesia totale, e pochissimi quelli che ci sono davvero riusciti. Tra questi, Derek Walcott, scomparso all’età di 87 anni, occupa senz’altro una posizione eminente. Le Indie occidentali, l’onnipresente Mar dei Caraibi, l’isola di Santa Lucia (l’ex colonia britannica dove era nato il 23 gennaio 1930) hanno assunto nei suoi versi una dimensione assoluta, e questo nel momento stesso in cui sguardo e sensi del poeta, premio Nobel per la Letteratura nel 1992, s’immergevano nella particolarità irriducibile di un paesaggio, di una natura, di orizzonti, di volti, di storie e di lingue che sono soltanto quelle e non altre. Se la rima tra particolare e universale costituisce uno dei miracoli della poesia, o comunque della grande arte, si può certo dire che nella sua opera poetica questa associazione abbia risuonato con una forza e un’evidenza assolutamente inusuali.
Walcott sapeva benissimo, come aveva anche scritto in un’occasione, che ogni vero poeta è di necessità un poeta provinciale. Sapeva insomma che se talvolta il verbo si fa carne, questo accade anzitutto nella poesia, che di per sé è la meno astratta e generica, e viceversa la più concreta e puntuale, la più esatta delle manifestazione della lingua. Così nei suoi versi ha non solo riversato ma attivato la sua intera esperienza di uomo: percezioni, sensibilità, ragione, senso dei fatti, sogno, corpo, immaginazione. Questo fa sì che il suo discorso poetico sia oltremodo denso, spesso, consistente, anche prensile, ma al contempo sempre poroso, aperto, capace di respirare. Anche quando – ad esempio nel grande poema Omeros (1990), che costituisce uno dei vertici della sua opera di poesia – s’inoltra nell’oscuro, triste retaggio coloniale del suo popolo, non s’inabissa mai in un buco nero di rancore, per così dire, senza ritorno. Al contrario, proprio in quel momento esalta le sua capacità di giudizio, di comprensione, come se la sua vista doppia mantenesse sempre aperto un contro-orizzonte, una possibilità diversa, non una opposizione ma, che è molto diverso, una relazione.
È vero allora che la nozione di confine, o meglio dell’esperienza del confine, che tante volte nei discorsi sulla poesia contemporanea finisce per scadere nella banalità del luogo comune, in Walcott viene ricondotta all’altezza che le compete. La sua poesia batte davvero sul confine: di civiltà, di storie, di lingue, ma anche di paesaggi, di dimensioni, di realtà. Non a caso la sua poesia è fisica e metafisica insieme: quanto più l’immagine appare determinata, tanto più non si esaurisce in se stessa, non finisce lì, ma rimanda sempre ad altro. Per questo la luce, ovviamente nel suo contrasto col buio, possiede una straordinaria importanza nella composizione di queste immagini. «E l’alveare delle costellazioni riappare, sera dopo sera, / nella tua voce, nel buio canneto dei versi che risplende di vita», così scrive Walcott in una poesia dedicata all’amico Josif Brodskij compresa nella raccolta Prima luce (pubblicata da Adelphi, la traduzione è di Andrea Molesini). Dentro e fuori, alto e basso, epica e lirica, sempre insieme.
E proprio Brodskij, prima ancora che a Walcott fosse assegnato il premio Nobel per la letteratura nel 1992, ha riconosciuto alla sua poesia il merito più grande, offrendone al contempo la definizione forse più precisa, a cominciare dalla relazione a doppio senso di marcia appunto tra particolare e universale. «L’atto di conferire a un luogo lo status di realtà lirica», così scriveva Brodskij, «comporta più immaginazione e più generosità che non l’atto di scoprire o sfruttare qualcosa che era già creato». Immaginazione, generosità: in fondo altro non è che un atto (poetico) di devozione verso la propria terra, un inchino fatto al proprio luogo natale in nome della sacertà tutta del mondo creato, e allora di una terra che è anche la nostra terra. «Sii grato di aver scritto bene in questo posto, / fa’ che le poesie strappate si involino da te come uno stormo / di bianche egrette in un lungo ultimo sospiro di liberazione», così scriveva Walcott in una poesia del suo ultimo Egrette bianche (edito anche questo da Adelphi, nella traduzione di Matteo Campagnoli). E a questo punto tra natura e storia, tra esistenza e ideale, tutto appare davvero compiuto, nulla rimasto intentato.

Roberto Galaverini, Il Corriere della Sera

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