Maria De Filippi: «Amici è un po’ talent un po’ reality. La prima sera a Sanremo ero terrorizzata»

Queen Mary o Maria la sanguinaria («vanno bene tutti e due»): Maria De Filippi è la cassaforte di Mediaset da più di vent’anni con Uomini e donne, Amici, C’è Posta per te.

Lei fa davvero programmi che le piacciono o programmi che deve fare perché funzionano?
«Mi prendo sempre la libertà di cambiare qualcosa, di modificare i meccanismi come voglio. Ho unito i due troni a Uomini e donne perché così mi diverto di più. L’anno scorso ad Amici c’era la gara tra squadre, un meccanismo che stimolava la competizione tra i ragazzi che sicuramente appartiene più al serale che al pomeridiano. Io stessa mi annoiavo un po’ e ho deciso di cambiare inserendo un meccanismo che si basa sull’individualità dei ragazzi, un meccanismo molto più aderente alla realtà del mercato discografico che coinvolge radio, produttori, registi di videoclip e a breve un direttore di compagnie di danza. La differenza vera è che non puoi fare copia-incolla sulle persone, le storie di vita non sono mai uguali, le vicende personali tirano sempre fuori qualcosa di diverso. I programmi li fanno le persone, così non c’è mai routine».

Amici è arrivato alla 20ª edizione.
«Era nato come esperimento, la prima edizione si presentarono in pochi, l’anno dopo i ragazzi erano 30mila. Pian piano è diventato sempre più talent, sono arrivate le case discografiche che prima non lo consideravano, si sono aperte le porte di Sanremo che prima erano sempre state chiuse, hanno cominciato a frequentarlo i cantanti che prima lo snobbavano. All’inizio i ragazzi erano tutti interpreti mentre ora sono tutti diventati cantautori, YouTube prima e TikTok poi hanno offerto loro la piattaforma dove potersi autoprodurre. La recitazione invece è stata una scommessa che ho perso perché in tv non si riusciva a renderla come volevo».

Questa che edizione è?
«Il connotato della scuola per me è sempre stato fondamentale, per la vera possibilità di far crescere i ragazzi. Oggi la convivenza nella casa a causa del Covid ha trasformato Amici: la necessità di tenere i ragazzi in una bolla fa sì che non sia solo talent, ma anche reality. Ci sono le storie di vita dei ragazzi, si vede tutto quello che prima non era sotto l’occhio delle telecamere».

Tra gli insegnanti c’è Lorella Cuccarini, le cui uscite sovraniste non piacciono a molti: perché l’ha scelta?
«Intanto io la reputo una mia collega, non solo una prof di danza. Io penso che quelle prese di posizione siano state frutto di ingenuità che hanno dato luogo a equivoci. Per me quello che è successo deve rimanere fuori dal programma. L’ho sentita realmente interessata al progetto, è appassionata ma severa e rigorosa con i ragazzi: non premia mai chi non lavora come si deve».

Nel cast c’è anche Arisa. Tanti anni fa «qualche imbecille alla porta dei casting» (parole sue) non la fece entrare ad Amici perché non era telegenica.
«Tra i 30mila ragazzi delle prime edizioni c’era anche Arisa e qualcuno la scartò alla prova telegenia, di cui ho scoperto l’esistenza solo a cose fatte. La telegenia è la più grande scemenza d’Italia, non ho mai lavorato guardando un monitor: se chi conduce guarda come viene in tv deve cambiare mestiere. E non mi sembra che la telegenia appartenga ai più grandi conduttori del mondo, come Letterman o Oprah Winfrey: loro piuttosto hanno superato la prova intelligenza».

Senza ipocrisie: l’aspetto, in tv come nella società, conta.
«La bellezza aiuta, ma non basta. La patente di ingresso per la tv non può essere la bellezza, a meno che non si tratti di Miss Italia».

Si è esaurita la partnership tra Amici a Discovery, pensa che possa esserci spazio invece su nuove piattaforme come Amazon?
«Non vedo perché no. Al momento non c’è nulla, ma penso che sarebbe un bene per me, per Amici, per Mediaset. La tv generalista deve imparare a convivere con queste realtà perché si rivolgono a un pubblico diverso. Io mi stupisco che i ragazzi guardino i miei programmi perché ormai hanno un modo diverso di fruire la tv. Sono convinta che se Amici andasse su Amazon non toglierebbe telespettatori a Mediaset, semmai li aggiungerebbe».

Qual è il programma in cui si riconosce di più?
«Amici è quello che mi dà soddisfazione, Tú sí que vales leggerezza e spensieratezza, Uomini e donne divertimento con gli amori di Gemma a 70 anni. C’è posta invece è quello che mi appassiona di più, perché la scelta delle storie è mia, perché mi misuro con quello che non conosco, con l’imprevisto di chi arriva ad aprire o meno la busta. Chi fa tv fa mediazione tra quello che succede in studio e quello che arriva a casa: C’è posta consente a chi lo conduce di non rimanere imbrigliato. Per questo preferisco il pomeridiano di Amici piuttosto che il serale, perché non mi sento ingabbiata in un meccanismo di gara dove il televoto padroneggia e se la mia attenzione di conduzione dura più tempo su un ragazzo che balla piuttosto che canta rischio di condizionare il risultato».

La sfida del sabato sera la vive come una condanna a dover vincere, uno stimolo a fare meglio o come una tassa da pagare?
«La vivo come una collocazione di palinsesto. Il dato Auditel del giorno dopo è il risultato del mio lavoro, non del lavoro altrui. Sono in grado dopo 20 anni di televisione di valutare indipendentemente dal fatto che abbia vinto o perso come ho lavorato. A volte si perde anche facendo un bel lavoro, a volte si vince anche non facendolo e a volte la vittoria coincide con il buon lavoro. Dopo 20 anni di tv sono in grado di valutare i competitor della serata, se il target di pubblico è lo stesso e si dividerà; se il pubblico è diverso e non si dividerà e a seconda di questo cambia la valutazione del risultato».

La serata Rai sul femmincidio è saltata definitivamente?
«È solo stata rinviata, se tutto va come si spera si farà a marzo in occasione della festa della donna, per parlare di femminicidio ma anche in positivo di celebrazione della donna».

Qual è il giorno della carriera da rivivere con il senno di poi?
«La prima serata di Sanremo, perché ero terrorizzata, non ho mai avuto un panico così né alla maturità né alla laurea. Avevo la salivazione azzerata, continuavo a camminare con lo sguardo fisso e le labbra che si accartocciavano all’indentro. Ho scelto di non fare le scale non per la paura di cadere, ma per la certezza di cadere perché mi tremavano le gambe. Ero preparata su ogni autore di ogni canzone, anche se poi ho capito che non serviva a niente. Ho finito quella sera nella convinzione di tornare a Roma, talmente ero stanca. Se potessi la rivivrei in modo completamente diverso».

E da punto di vista personale?
«Quando ho incontrato per la prima volta Gabriele (il figlio adottato con Costanzo, ndr): lui aveva 10 anni, io ero tesa come una corda di violino, era come andare a un esame a cui non ti puoi preparare. Pensavo: e se gli faccio schifo?».

Il suo incubo ricorrente?
«La malattia, ho il terrore della sofferenza per me e per le persone a cui tengo».

Quale talento ruberebbe a suo marito Maurizio Costanzo?
«Ne ruberei tanti. A partire da quello di non smettere mai di essere curioso, sperimentare, mettersi in gioco. Io sono molto più cauta nelle mie cose, vado con la certezza di avere qualcosa sotto i piedi, lui invece non ha paura di buttarsi».

Renato Franco, Corriere.it

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