Da Gomorra a Hollywood: Salvatore Esposito ha trovato l’America con «Fargo»

Dalla provincia di Napoli a Hollywood. Anzi, a Kansas City. Lì, negli anni Cinquanta, è ambientata la nuova stagione di Fargo, serie di culto prodotta dai fratelli Coen, che in questa sua quarta stagione — al via su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv — ha tra i suoi protagonisti Salvatore Esposito. Il biglietto per uno dei titoli più popolari al mondo, è arrivato grazie a Gomorra. «I primi contatti dagli Stati Uniti risalgono a quattro anni fa — spiega l’attore —: da allora ho anche un manager americano. Quando mi ha chiamato per dirmi che mi volevano per Fargoero super gasato all’idea di fare un provino. Invece mi ha detto: “No, guarda che ti hanno già scelto. Vogliono te”».

Dal 2014, Genny Savastano — lo spietato boss della serie ispirata al libro di Saviano — non smette di aprirgli porte: «Portoni, direi. Ogni volta che vado all’estero ne ho la prova: nel mondo Gomorraè paragonata alle più grandi serie internazionali». Anche qui, veste i panni di un potente della malavita: «Questa stagione racconta la lotta di potere tra afroamericani e italoamericani, in quegli anni. Il mio personaggio è tra i più sopra le righe, in un certo senso uno dei più farghiani, con tutte quelle idiosincrasie che amano i Coen». Se c’è un rammarico, è non aver potuto avere uno scambio più fitto con loro, per via della pandemia. «Purtroppo è stato tutto un po’ falsato, peccato. Ma posso dire che perfino con produzioni come queste noi italiani non abbiamo nulla da invidiare… cambiano i mezzi a disposizione, che negli Usa sono enormi rispetto ai nostri, ma noi compensiamo con la creatività». Certo, lì «c’è il culto per il mestiere dell’attore, che da noi esiste meno, come si vede in questo momento di crisi. Ora con Unita stiamo finalmente lottando per creare una categoria, altrimenti noi attori siamo relegati a semplici liberi professionisti… ma la cultura ha un impatto nella società, andrebbe sostenuta».

Non parla per lui, a cui la vita (professionale) non smette di sorridere. «Quello che faccio è molto più rispetto a quanto avessi sognato. Sono partito dalla provincia di Napoli e pur vivendo tutto con assoluta naturalezza, conservo la speranza che i ragazzi che mi seguono possano trarne giovamento, capendo che i sogni si realizzano nonostante le difficoltà, anche se si nasce in periferie dimenticate». Eppure anche Fargosembra raccontare di individui segnati irreversibilmente dai propri destini. «Ma il senso di riscatto è sempre motivo di orgoglio, e lo dico avendo anche dei parenti emigrati anni fa a New Orleans… nemmeno a dirlo, sono molto fieri che io sia in questo progetto». Come è stato lavorare al fianco di attori noti in tutto il mondo? «All’inizio provavo un po’ di imbarazzo, poi ti rendi conto che più sono importanti e più sono umili. Chris Rock è simpaticissimo, così come Jason Schwartzman, che nella serie è mio fratello. Finito di girare andavamo spesso al cinema assieme. Un giorno, in taxi, parlavamo di una scena: “Alla fine tu come l’hai ammazzato?” mi ha chiesto. “Gli ho dovuto sparare un colpo in testa”… solo dopo ci siamo resi conto che l’autista ci guardava dallo specchietto impallidito. Gli abbiamo spiegato che eravamo attori e non serial killer». Nonostante ormai abbia una certa esperienza con quel ruolo. «Non vivo nel terrore di interpretare sempre lo stesso personaggio, non ho mai avuto questa paura. Sono cresciuto con i film di Scorsese e Tarantino, per me, a prescindere dal ruolo, sarebbe un piacere enorme riuscire un giorno a lavorare con loro, o con attori come De Niro e Al Pacino».

C’è una morale che ha tratto dalla serie? «Che il razzismo resta la piaga della nostra epoca e ce la portiamo dietro da un secolo. Le nazioni hanno tolto rilievo alla cultura, assoggettando la maggior parte della popolazione a un’ignoranza che spinge ad aver paura del diverso, che sia per il colore della pelle, la religione o l’orientamento sessuale. Andrà sempre peggio se chi di dovere alimenta la discriminazione anziché combatterla. Per farlo, le armi sono l’arte e la cultura».

Chiara Maffioletti, Corriere.it

Torna in alto