Pacey per sempre

Il figo (incompreso) di ‘Dawson’s Creek’ torna con ‘Dr. Death’, la prima serie in cui fa il cattivo. E Joshua Jackson, condannato al ruolo dell’eterna spalla, dimostra finalmente che era lui, il (fu) ‘teen idol’ su cui puntare

Momenti durante i quali ho seriamente preso in considerazione la possibilità di spaccare la televisione, in ordine sparso: quando Rory rifiuta la proposta di matrimonio di Logan – trasferimento a San Francisco, superattico e palate di soldi inclusi – in Una mamma per amica. Quando Andrea volta le spalle a Miranda Priestly, al suo lavoro a Runaway, ai vari Chanel, Valentino, Prada, Oscar de la Renta eccetera eccetera per «fare davvero la giornalista» e tornare ai suoi maglioncini cerulei 100% acrilico nel Diavolo veste Prada. (Sì, va bene, qui avrei spaccato lo schermo del cinema Colosseo, ma ci siam capiti.) Quando Joey Potter trascina per quattro interminabili stagioni – leggi: novantatré episodi – il triangolo amoroso più inutile, sfiancante e soporifero di sempre, in quella serie che avrebbe potuto intitolarsi I dolori del giovane Dawson e che invece era Dawson’s Creek.

Come poteva la dolce, sensibile, insopportabile Joey Potter (Katie Holmes) prendere anche solo vagamente in considerazione l’idea che Dawson Leery (James Van Der Beek) fosse un partito migliore rispetto a Pacey Witter (Joshua Jackson)? L’individuo le cui pippe mentali sul sesso erano inversamente proporzionali al farlo, il sesso, meritava tutti questi struggimenti? Il mio, anzi forse dovrei dire nostro, idillio personale con Pacey/Joshua è iniziato lì, a Capeside, Massachusetts: abbiamo capito che i veri fighi hanno la faccetta da schiaffi e gli occhi che la dicono lunga; che sono un po’ sbruffoncelli, ma sotto sotto hanno un cuore d’oro; che tra parlare e agire preferiscono nettamente la seconda. Pacey Witter è stato il motivo che ci ha fatto arrivare, sfiniti, al 2003: la vecchia Joey finalmente sceglie il nostro beniamino – con cui ebbe una storia d’amore anche nella realtà, correva l’anno 1997 – e Dawson’s Creek chiude i battenti, lasciandoci davanti alla classica incognita da teen drama: che ne sarà degli interpreti? Riformulo: che ne sarà di Joshua Jackson?

All’epoca venticinquenne, Jackson recita in film senza né arte né parte (Ombre nel sole, Aurora Borealis, Americano, Bobby), debutta sul palcoscenico nel West End di Londra con A Life in the Theatre, rappresentazione teatrale del film di David Mamet, e non da ultimo si fidanza con la più algida del creato, Diane Kruger. La svolta arriva nel 2008: viene selezionato per la parte di Peter Bishop, protagonista insieme ad Anna Torv e John Noble della serie di fantascienza Fringe, ideata da J.J. Abrams, Alex Kurtzman e Roberto Orci. Fringe diventa un cult per gli appassionati di sci-fi, e Peter Bishop – che tra intelligenza, furbizia, autoironia, eroismo e idealismo ha un jackpot di doti mica da ridere – ne è il collante, al centro tra l’altro di una delle storie d’amore più appassionate e appassionanti della serialità.

Non era insomma soltanto un fenomeno da teen drama, Joshua Jackson, e il 2014 lo conferma: conclusasi Fringe, è infatti il turno di The Affair, creata da Sarah Treem e Hagai Levi per Showtime, dove interpreta il ruolo del marito tradito Cole Lockhart. Un caso emblematico, quello di The Affair: Showtime è solitamente sinonimo di serie di qualità, e i due Golden Globe vinti nel 2015 (miglior serie drammatica e miglior attrice in una serie drammatica a Ruth Wilson, ossia la moglie fedifraga) ne sono la prova. Poi, a partire più o meno dalla seconda stagione, la serie diventa il tipico caso dell’«era meglio morire da piccoli» – tradotto, fermarsi ai primi dieci episodi – e prende a sbracare a destra e a sinistra, trasformandosi in un gran pasticcio a metà tra thriller psicologico, tragedia romantica e commedia degli equivoci. Joshua Jackson rimane uno dei (pochi) motivi per cui, insieme a uno sparuto gruppo di amici stoici, mi sono sottoposta a un supplizio ai limiti del paradossale per cinque anni, mentre il brodo veniva allungato a dismisura e la domanda che tutti ci ponevamo («Ma perché Alison fa le corna a Cole con Noah-quintessenza-della-sfiga-Solloway?») restava senza risposta. Poi Joshua/Cole ha capito che era meglio abbandonare la barca che stava affondando alla penultima stagione e saltare su una scialuppa per non annegare nel mare dell’insensatezza e dell’inverosimiglianza: noi siamo comunque andati avanti fino all’ultimo episodio, ma questa è un’altra storia d’autoflagellazione e spirito di sacrificio.

Chiusa la parentesi The Affair, per un po’ Jackson sparisce dai radar: termina la relazione con la più algida del creato, si fa vedere in giro con l’attrice e modella anglo-giamaicana Jodie Turner-Smith – che a differenza della ex è una tutta sorrisi e outfit sgargianti –, nel 2019 la sposa in gran segreto e l’anno successivo diventa padre di Janie. Nel frattempo ricompare in When They See Us, miniserie di Ava DuVernay sul caso dei Central Park Five (Netflix) e in Little Fires Everywhere (Hulu), altra miniserie tratta dall’omonimo romanzo di Celeste Ng con Reese Witherspoon e Kerry Washington.

Parrebbe una vita da coprotagonista a recuperar drammoni, almeno fino all’arrivo di Dr. Death, serie creata da Patrick Macmanus per Peacock (piattaforma online di NBC), nonché adattamento televisivo dell’omonimo podcast del 2018. Arrivata in Italia il 12 settembre su StarzPlay, Dr. Death è la vera storia di Christopher Duntsch (cioè Joshua), giovane e fin troppo brillante neurochirurgo di Dallas dotato di un ego spropositato, tanto da autoconvincersi di essere un genio incompreso della medicina. Peccato che sul suo tavolo operatorio si finisca paralizzati quando va bene, morti quando va male, quindi definirlo un macellaio è tutto tranne che esagerato: Jackson dà il volto a Duntsch in diverse fasi di una vita e una carriera dominate da incompetenza, malvagità e arroganza, ma pure da una malsana burocrazia e dalla convinzione che, impacchettandoli ben bene, fuffa e dilettantismo possano essere venduti a chiunque.

Al suo esordio “da cattivo”, l’ex Pacey vince e convince, sarà per quell’aria da eterno sbruffoncello che coltiva dai tempi di Dawson’s Creek e che oggi risfodera, in chiave adulta e vagamente psicotica, per raccontare le vicende da brividi del famigerato Dottor Morte. Curioso, in un’epoca in cui la fiducia di noi pazienti nei medici e nella medicina non è mai stata così cruciale e messa in discussione, uscire con un medical che a tratti assume le sembianze di un horror: un plauso alla prova di coraggio e alla prossima, caro Pacey. Tanto tu ormai l’hai capito che il nostro per te è True Love allo stato puro (cit.).

Rollingstone.it

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