Cristiano Godano: “Metto a nudo la mia vulnerabilità, anche se è poco pop”

Cristiano Godano è senza dubbio una delle voci più riconoscibili del rock italiano, colui che assieme ai suoi Marlene Kuntz ha scritto tra le migliori pagine musicali italiane di questi ultimi decenni. Dal bisogno di una dimensione più intima nasce “Mi ero perso il cuore”, primo album solista, che racconta il dolore guardando a Neil Young.

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Cristiano Godano è senza dubbio una delle voci più riconoscibili del rock italiano, colui che assieme ai suoi Marlene Kuntz ha scritto tra le migliori pagine musicali italiane di questi ultimi decenni. Da tempo gira l’Italia con la sua chitarra acustica, rileggendo alcune canzoni della sua band, alternando musica, poesia e chiacchiere. Proprio da questa dimensione intima che è riuscito a dare al tutto che nasce:

“Mi ero perso il cuore”, il suo primo album solista. Per questa ennesima prima volta Godano non ha cercato alcun compromesso col mercato e ha tirato fuori un album che guarda al folk di neilyoungiana memoria, ma soprattutto non ha cercato scorciatoie catchy, percorrendo una strada a grandi tratti dolorosa e intima, appunto. Godano è uno dei pochi che non ha paura di usare la lingua, non cerca la parola più semplice o il concetto più accessibile, usa la poesia applicata alla musica, tavolozze di colori (spesso scuri) con cui dipinge paesaggi di perdita e dolore, muovendosi spesso in un campo semantico che ha a che fare col freddo, il gelo e i temporali. Quest’album è un lavoro per anime forti, per chi non ha paura di guardarsi dentro e mettersi in discussione, per chi non ha paura del lato oscuro dell’anima, quello da affrontare prima di riemergere, si spera, più forti.

Partiamo dalla domanda delle domande: cosa differenzia un album a nome tuo da uno a nome Marlene? Anche perché immagino che tu abbia sempre avuto una certa libertà, no?

Con questo disco sento espressa una parte consustanziale a me che non poteva venire fuori con i miei sodali di sempre, ovvero Riccardo e Luca. Non si tratta, qui, di chiedersi se io sono stato libero di fare cose, al massimo sono io che mi sono imposto la non libertà di suonare certe cose come desideravo io per ottenere musica in un certo modo, ma un gruppo vive di democrazia nella maniera più condivisa e ragionevole possibile. Riccardo e Luca semplicemente non hanno nelle corde questa sensibilità, ne hanno altre, d’altronde uno non si aspetterebbe da un gruppo metal di fare un disco acustico: Riccardo proviene dal metal poi suonando con me si è contaminato, però il disco mio di adesso fotografa un’atmosfera che non avrei voluto e potuto pretendere dai Marlene.

Insomma, è un problema, da una parte di suono e dall’altra di percorso: ti sei buttato su un alt-folk che prima avresti dovuto pareggiare col gusto degli altri?

Potrebbe anche essere, al limite, sì, si sarebbe trattato di pareggiare col gusto degli altri, ma ripeto questa è una parte molto mia, è proprio il mio modo di suonicchiare quando sono in casa. Quando ho in mano una chitarra acustica io la suono così, se penso a un pezzo dei Marlene la suono sapendo che poi prenderò in braccio una chitarra elettrica e diventerà un’altra cosa, qui sapevo di voler continuare con la chitarra acustica anche in studio e di mantenere questo mood che ho quando sono per conto mio.

Alla fine, riprendi su disco quello che ultimamente facevi da solo.

Sì e avevo questo approccio qua, quando ho iniziato a scrivere queste canzoni, a pensarle come qualcosa che sarebbe approdato a questa cosa qui, era proprio quello il riferimento: io volevo ottenere quel tipo di atmosfera che ottengo quando sono da solo, canzoni mie che quando sarò in giro da solista – benché questo disco avrà un tour con la band con Gianni Maroccolo, Luca Rossi etc – vorrò poter suonare con quel piglio e quella atmosfera. Quando le ho create il mio obiettivo principale era poter avere dei pezzi che mi permettessero questo tipo di agilità solitaria.

Senti, è un disco in cui c’è un forte senso di perdita e di dolore: da dove nasce e come nasce questo sentimento?

Il disco parla chiaro, se lo si ascolta e si leggono i testi non c’è certamente serenità, non c’è leggerezza. Credo che arrivi molto anche dal senso di inquietudine che da quattro, cinque anni provo nei riguardi della deriva che sta prendendo l’umanità. La sensazione è che ci si stia andando a intubare in qualcosa di pericoloso e grave, a partire dal global warming che percepisco come una cosa possibile. Mi fido della comunità scientifica, sono anni che ci dicono di essere vicini al punto di non ritorno, e da lì, a discendere, verso tutte le bagatelle della politica spettacolo, incentrata su tweet che mi sembrano stupide e ignobili perdite di tempo, visto che ci sono problemi ben più gravi per le giovani generazioni future.

Un album intimo che cerca di parlare a una moltitudine, insomma.

Tutti questi input esterni sono andati a corroborare e mettere ancora più in agitazione un fermento mentale già di suo alterato. Il dolore e le sofferenze di cui parli sono un mix di sensazioni personali e sociali che hanno creato il presupposto per una riflessione. Credo sia un disco in cui molti si sentiranno narrati, perché non credo che questo tipo di disagio tra il personale e il sociale sia esclusiva mia personale, credo che siamo in tanti a essere in una condizione di straniamento e vulnerabilità.

Senti: fango, melma, temporale, uragano, tempesta, gelo, pioggia. Ti muovi in un campo semantico che ha spesso questo tipo di riferimenti, non so se è un caso o qualcosa che se non hai ricercato volutamente, però c’è questo filo che lega le canzoni, o sbaglio?

Direi che è sintomatico ed emblematico di quello che abbiamo detto prima: sono sicuramente elementi della natura che ben si sposano con la dimensione sofferta di cui parlavamo prima. Mi ci fai anche un po’ riflettere e me lo fai notare, diciamo che se è come dici, se ci sono tante parole che riconducono a questa dimensione glaciale, fredda, inospitale è anche perché c’è un istintivo approdo da quelle parti dovuto al mood interiore, è un mix di raziocinio ed istintività.

Senti, a un certo punto canti: ‘Mi accetterai tutte quelle volte che scoprirai quel po’ di me scialbo e impoetico?’. Mi ha colpito perché non solo è l’emblema del mettersi a nudo, ma è il racconto della paura della demolizione della propria immagine rispetto all’altra persona. Mi parli del rapporto che hai con l’immagine che hai di te, se c’è una lotta tra l’immagine pubblica e quella privata?

È chiaro che da una parte questo sarebbe un ipotetico dialogo fra il me e la lei, una lei che ha subito una fascinazione della mia immagine poetica e ne è rimasta invaghita. È chiaro anche, però, che io metto alla mercé di tutti coloro che avranno il disco per le mani questa dimensione intima, quindi è evidente che ho avuto il coraggio di mettere in scena questo risvolto. Ci vuole coraggio a far vedere che dietro a un poeta c’è un uomo vulnerabile, credo che sia a che una bella idea far riflettere le persone su questa dimensione. È un invito a empatizzare con la parte umana della figura mitica ed è un aspetto che magari non conviene, ci sono personaggi dal collaudato successo che non oserebbero scalfire, intenerire, indebolire la roccaforte della loro dimensione pubblica collaudata.

Diciamo che è prerogativa anche di quelli che consideri maestri, no?

Sì, i miei riferimenti artistici sono del tipo di quelli che non hanno mai avuto questo tipo di problemi: penso a Leonard Cohen, a Bob Dylan, a Nick Cave, a Neil Young. Mi nutro di immaginari che arrivano da dimensioni artistiche di questo tipo e ho sempre imparato che non sono certi artisti che si tirano indietro, anzi sanno approfittare di questo tipo di dimensioni esistenziali per crearne delle opere d’arte intense e interessanti. Lo so, tutto ciò non è pop, però i Marlene Kuntz pop non sono, quindi si va avanti e checché ne dicano alcuni critichini della prima ora, il nostro linguaggio è sempre stato un linguaggio molto poco pop, perché implica una riflessione, una pazienza, c’è bisogno di pazienza per scandagliare quello che facciamo.

A metà album ci sono due canzoni intitolate “Padre e figlio” e “Figlio e padre” con la prima che una lettera dolente nei confronti di un figlio. Qual è il rapporto tra queste due canzoni?

Indubbiamente c’è un motivo per cui il l’ordine degli addendi muti da una canzone all’altra nel titolo, ma l’ascoltatore dei Marlene attento ci potrà arrivare. La canzone ‘Padre e figlio’ è una canzone estremamente commovente e dolorosa per me, quando l’ho ascoltata in cuffia le prime volte, assieme a “Lamento del depresso” e a “Ho bisogno di te”, mi hanno sconquassato dentro e qualche lacrimuccia è comparsa, perché per me sono potentissime. Sono canzoni in cui il rapporto filiale e genitoriale viene estrinsecato da un qualche punto di vista che è quello della canzone, senza timore di affondare nella carne, di essere estremamente precisi nel raccontare la tipologia delle emozioni. “Padre e figlio” è sicuramente una lettera, una confessione a cuore aperto, mentre in “Figlio e padre” ci sono un po’ di fantasmi, poi le canzoni hanno delle pieghe di particolare autobiografia e mi fermo qua.

“Dimmi una parola che non sia di ostilità” è un riferimento a “Non dirmi una parola che non sia d’amore”?

[Ride] Quando l’ho scritto ho sentito il pericolo di questa vicinanza, evidentemente ho amato talmente quella canzone di Ferretti che era lì nell’aria però non è voluto. Mentre lo scrivevo sentivo che poteva esserci un riferimento, ma non c’è un rapporto diretto.

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