Brian De Palma si racconta: «I miei thriller al sangue»

Il regista: «Figlio di un chirurgo, abituato alle scene forti. E sul set di “Scarface” ho dovuto cacciare Oliver Stone». Il nuovo film «Domino» in arrivo nelle sale

«Domino», così si intitola, ha avuto ritardi, problemi di finanziamenti, una durata che da 2 ore è scesa a 90 minuti e divergenze creative. «Non è un mio progetto, non ho scritto io la sceneggiatura, mai avuta un’esperienza così terribile su un set», aveva detto il maestro della suspence. Suspence che ha mostrato anche nella genesi di questo film. In uscita l’11 luglio per Eagle Pictures, è un thriller in cui un poliziotto si vendica dell’omicidio di un amico e collega, sul fondo di Cia e Isis; i protagonisti Nikolaj Coster-Waldau e Carice Van Houten vengono da «Game of Thrones». Il film ha aperto la seconda edizione del Filming Italy Sardegna Festival, ideato e diretto da Tiziana Rocca tra Cagliari e a Fort Village. Il regista, tornato al cinema dopo sette anni, è come le sue trame, un personaggio misterioso. Fa parte della «Banda dei 5», amici inseparabili di una vita, Spielberg, Scorsese, Coppola, Lucas. Ha attraversato varie tempeste ed è ancora sulla tolda della sua nave.

Parliamo di lei, prima che il cinema entrasse nella sua vita.
«Sono nato nel New Jersey, mio padre era un chirurgo ortopedico, a casa lo vedevamo poco, io e i miei due fratelli. Insegnava anche, scriveva libri. I miei non andavano d’accordo, c’era molta tensione. Ho frequentato una scuola di quaccheri, in silenzio, riflettendo sugli aspetti morali della vita. Alla Columbia ho studiato Fisica, Matematica e russo. Ero uno scienziato nerd».
E poi?
«Poi all’università ho conosciuto la Nouvelle Vague francese. Ho cominciato a fare dei cortometraggi, Wilford Leach fu il mio mentore. Imparai a diventare regista, in “The Wedding Party” (“Oggi sposi”, 1969)c’è De Niro, fu uno dei suoi primi film. Per mantenermi giravo documentari. Ero un bravo cameramen nel seguire le scene. Nel ’68, influenzato da Godard, girai “Greetings” che fu distrutto dal New York Times ma elogiato da altri, ed ebbe successo».
Come spiega i su e giù della sua carriera?
«Sono sempre stato anti-establishment, e ho avuto gli stessi problemi finanziari di Orson Welles. Poi c’era chi criticava la violenza sulle donne in alcune scene, o il sangue che scorreva a fiumi. Io, cresciuto nella sala operatoria di mio padre, vi ero abituato. Il problema di Hollywood è che i suoi valori sono all’opposto della creatività, e la gente è pagata tanto per spingerti a fare quello che vogliono loro. Ogni volta che ho accettato compromessi, è stato un disastro».
Restiamo a Hollywood.
«Gli Studios nel ’78 mi offrirono “The Fury”. Non avevo mai avuto un budget di 5 milioni di dollari. Ma non mi piacciono gli inseguimenti d’auto, li trovo noiosi, e poi cosa potevi aggiungere dopo “Il braccio violento della legge”? Molti miei film sono sulla megalomania, continua a affascinarmi la gente che vive in mondi isolati».
Dunque, «Scarface»…
«Non volevo i gangster stile “Il Padrino”. Cercai non il buio di ambienti chiusi ma la luce, i colori pastello: cercavo Miami. Oliver Stone lavorò alla sceneggiatura, si documentò avvicinandosi a territori pericolosi. Lui era già regista, gli attori avevano due punti di vista, non poteva continuare, dovetti allontanarlo».
E «Gli intoccabili».
«Grande cast. Connery cercava qualcosa di diverso da 007. Ma c’era bisogno di un attore USA credibile con la faccia da gangster e De Niro, rapato, ingrassato, per Al Capone, era perfetto. La scena della carrozzina che cade dalle scale mi venne da “La Corazzata Potëmkin”».
Che ricordi ha di «Vittime di guerra»?
«Nessuno voleva farlo. La ritengo la migliore storia di un film sul Vietnam. Non capivamo quella gente perché eravamo in guerra. Ma qualcuno diceva che era per gli interessi della nazione».
Lei e Bruce Springsteen.
«Venivo dal disastro di “Omicidio a luci rosse”, dove in lizza nel cast c’era la pornostar Annette Haven e per gli Studios era uno scandalo. Dovevo cambiare registro. Girai il video di “Dancing in the Dark” con l’idea di una ragazza del pubblico che balla con il Boss».
Cosa ha rappresentato Hitchcock per lei?
«Nel 1958 uscì “La donna che visse due volte”. Non lo dimenticherò mai. È un film che ti fa capire il lavoro del regista: creare romantiche illusioni con belle donne che spesso vengono uccise, e uomini virili».

Valerio Cappelli, corriere.it

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