Ermal Meta: «Basta definizioni, siamo tutti figli del pop»

L’uno-due Sanremo-Primo maggio forse alla lunga servirà più a Ermal Meta che a Gabbani, e non solo perché l’uomo di «Occidentali’s karma» è arrivato all’Ariston senza album pronto e poi si è trovato ingabbiato nel pasticciaccio brutto dell’«Eurovision song contest» mentre lui prima ha spopolato in classifica e poi con il tour che domani e giovedì lo porterà a Napoli, teatro Acacia.
Ha tifato per la «scimmia nuda che balla» durante i giorni di Kiev?
«A dir la verità non ho visto niente, ero impegnato al lavoro. Ma la mia Albania ha votato per Francesco: siamo popoli amici, non lo dimentichiamo mai».
Con il vincitore del Festival vi eravate ritrovati pochi giorni fa sul palco del concertone di San Giovanni in Laterano, di solito poco adatto ai protagonisti festivalieri. Tra tanti cantantini «indie» di successo siete stati ripagati da applausi indiscussi.
«Le definizioni stanno strette alla musica e, se non parliamo di sottogeneri codificati con precisione, che siano il trash metal o il dubstep, non possono identificare un pubblico. Al Primo Maggio – la platea più numerosa che io abbia mai visto dal vivo – ci sono suoni rock e folk, cantautori e gruppi, ma poi, alla fine, tutto cade sotto l’ombrello generale del pop: siamo tutti pop, anche quelli che fanno finta di non essereo. E la parola “indie” non ha più senso oggi: indipendenti da chi e come? Non ci sono più artisti che rifiutino un palco, uno show televisivo, un contratto di distribuzione per non essere confusi con la scena mainstream. E, poi, anche la major non esistono più, o quasi».
È rimasta solo una grande melassa normalizzante?
«No, c’è chi scimmiotta dall’estero, chi punta sul motivetto usa e getta, chi… Io, ad esempio, sono fiero di come mi sono presentato quest’anno a Sanremo, non ci sarei mai andato con una proposta diversa».
Ricapitoliamo: «Vietato morire» era un sorta di sequel di «Lettera a mio padre»: siamo passati dal rapporto conflittuale con una figura paterna violenta all’omaggio a una madre coraggio che lascia quell’uomo e porta i suoi figli in Italia.
«Salire sul podio è stata un’emozione, ma quel terzo posto per me vale più di un primo perché sono riuscito ad arrivare ai cuori delle persone parlando di me ma, soprattutto di un tema serio, drammatico».
Sul risultato ha influito anche la splendida versione di «Amara terra mia» proposta nella serata delle cover.
«Sono un cantautore, non era importante se cantavo bene Modugno, ma come quel brano avrebbe cantato me. Era un vestito che mi calzava a pennello, a volte anche scomodo: senza quei versi del grande Mimmo forse non sarei mai riuscito a raccontarmi così bene».
Sanremo le ha regalato anche il premio della critica intitolato a Mia Martini.
«Soddisfazione nella soddisfazione. Al consenso della stampa si è aggiunto il nome di Mimì: mi sarebbe piaciuto aver scritto qualcosa per lei, ma mi sarebbe bastato anche solo poterla ascoltare ancora».
Altri desideri come autore?
«In questo periodo non ho tempo nemmeno per scrivere per me, ma… Mi piacerebbe comporre non per – lui è troppo bravo, tra i migliori cantautori che l’Italia oggi abbia – ma con Cesare Cremonini».
Che show vedremo a Napoli?
«Energico, in scaletta i miei due dischi da solista, “Amara terra mia”, un paio di pezzi scritti per altri e qualche brano anche del periodo con La Fame di Camilla».
E poi?
«Girerò l’Italia in lungo e in largo, approfittando del momento di intesa con il pubblico. A novembre mi aspetta un giro all’estero: cinque date in Europa, cinque date negli Usa».
Intanto c’è «Amici».
«In un talent show un vincitore ci deve essere per regolamento, io interpreto il mio ruolo di giudice con normalità: trasferisco ai ragazzi quello che ho imparato e ripeto loro che sono davanti a un traguardo che è più un punto di partenza che di arrivo».

Il Mattino

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