Preparatevi: “Love death and robots” è la non-serie (piena di sesso e ironia) più incredibile di Netflix

Dal 15 marzo in streaming diciotto corti animati: il minutaggio varia tra i cinque e i quindici minuti. Non c’è un’unica trama, è il trionfo della creatività

Abbastanza ciclicamente ricomincia la polemica del: ma perché Netflix non sperimenta di più? Perché s’adagia sui generi, sulle cose già viste? E abbastanza ciclicamente arriva la risposta: Netflix sperimenta, ma sperimenta quando ne vale la pena. Quando il suo modello può essere sfruttato al massimo, e nel migliore dei modi. “Love death and robots” (dal 15 marzo in streaming) è, con buone probabilità, la serie/non-serie più incredibile, straordinaria e sconvolgente che sia stata distribuita dalla piattaforma streaming da molti anni – ed è una realtà giovane, lo sappiamo – a questa parte.

È tutto quello che ci si aspetterebbe da chi ha fatto dell’innovazione la propria bandiera. È libera, estrema, è senza mezzi termini. È piena di violenza e di sesso, e di nonsense e di ironia, e di intuizioni geniali. È una serie antologica di corti animati (in totale ce ne sono 18, il minutaggio varia tra i cinque e i quindici minuti). La curano due signori che si chiamano Tim Miller, papà del “Deadpool” cinematografico, e David Fincher, il regista-autore-cineasta che prima di tutti ha intuito il potenziale di Netflix e ha deciso di lavorarci insieme: pensate a “House of Cards”, che portava la sua firma nelle prime stagioni; pensate pure, più recentemente, a “Mindhunter”.

“Love death and robots” è il trionfo della creatività. L’animazione – che non è un genere e non lo sarà mai, e che al massimo è un modo, un medium, tramite cui raccontare qualcosa – è il linguaggio migliore per il tipo di storie che contiene. Ci sono futuri prossimi, futuri apocalittici, presenti alternativi, passati non così passati. Ci sono riscritture della storia, quella con la s maiuscola, e ci sono mondi spaziali informi e freddi, dove si è soli e abbandonati, e dove la paura è un mostro dai mille occhi, che t’addormenta, ti coccola, e ti sussurra bugie all’orecchio.

In questa serie non c’è un’unica trama, un solo fil rouge, che collega i vari episodi – che episodi, quindi, non sono – e che tiene le redini di tutto l’andamento, narrativo e produttivo. Ogni corto è un’isola: sai che attorno a te, nell’oceano, ce ne sono altre, qualcuna più simile e qualcuna più diversa; ma la realtà che vivi nell’immediato è solo quell’isola, e quindi non ti sembra che ci sia altro da vedere o da sentire. “Love death and robots” non poteva essere sviluppata e distribuita da altri se non da Netflix: è un prodotto pensato per lo streaming, e che vive di streaming. Puoi guardare una puntata, due, tre, fermarti, ricominciare da capo. Decidere che un mondo ti interessa di più e concentrarti su quello. Optare per un horror – ma niente ti dice quale puntata sarà un horror se non, appunto, la puntata stessa. Oppure per una comedy. Per un survival. Per un thriller senza parole, fumettoso, pieno di balloon che spuntano dal nulla e danno voce ai suoi (come in “Spider-man: into the spider-verse”, film premio Oscar).

In “Love death and robots” ci sono corti in 2D, in 3D e in CGI. E quindi ci sono storie più piatte, che s’affidano totalmente e completamente al disegno. Altre elaborate, diverse, complicate visivamente. E poi ci sono quelle così belle e così profonde da sembrare dei piccoli film, dove la computer grafica si confonde con la fotografia. Anche questo, l’alternanza di tre tipi d’animazioni, è sintomo di una voglia sfrenata di sperimentare. Qualcuno, nel tentativo di etichettare “Love death and robots”, lo accosterà ad “Animatrix” delle Wachowski. In un certo senso sì, le due cose si somigliano; ma qui c’è molta più libertà, molta più corda da tirare. Perché “Love death and robots” non è solo un insieme di storie, di piccoli film, di pezzi di filmmaking; è anche una serie di sensazioni, suggestioni, di viaggi onirici e spaziali; è la concretizzazione della potenza dell’animazione, dove, rispetto al live action, può succedere qualunque cosa, non ci sono limiti e non c’è nessuna – apparente – regola narrativa.

Gianmaria Tammro, La Stampa

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