Luca Barbareschi: «Mia moglie Elena è una macchina da guerra. I figli? Potrei averne 800»

È ebreo praticante?
«Abbastanza».

Rispetta la kasherut?
«Sono molto zigzagante, ma quando lo faccio per qualche giorno mi sento molto meglio».

E lo Shabbat?
«Lo Shabbat è sacro».

Davvero non lavora il sabato?
«Solo la sera, a teatro. In realtà non dovrei andarci il venerdì dopo il tramonto, ma faccio un’eccezione. Alle 22 finisco e torno a casa».

Anche sua moglie, Elena Monorchio, è ebrea?
«No, lei è calabrese, che è peggio: è molto ortodossa. Ma insieme facciamo Shabbat, Chanukkah, Pesach e la Conta dell’Omer».

Essere praticante non le ha impedito di inciampare, più di una volta.
«Solo chi cade si può rialzare».

Delle sue cadute ha fatto uno spettacolo.
«E un libro: Cercando segnali d’amore nell’universo».

È vero che è stato in una clinica del sesso?
«No, mai stato».

In una clinica per dipendenze?
«Nemmeno. Ma prendo sul serio gli errori e quando a 20 anni mi sono accorto di avere un problema con la droga, sono andato a Londra da Andy Zamar a farmi aiutare. Sono stato con lui un giorno».

Luca Barbareschi è elegantissimo nel suo ufficio al terzo piano dell’Eliseo di Roma, teatro che ha acquistato nel 2015 e che adesso ha messo in vendita per 24 milioni. È circondato dai libri, dalle chitarre, dalle fotografie che raccontano quasi cinquant’anni di carriera artistica, vissuti (talvolta) orgogliosamente sopra le righe.

Riavvolgiamo il film della sua vita. Prima scena.
«Montevideo, la spiaggia d’inverno. Mio papà e mia mamma che ancora si amano, io piccolino e il cane lupo Whisky. Dormivamo in un seminterrato, da un antiquario ebreo che ci prestava i mobili, ma li cambiava ogni settimana».

Perché l’Uruguay?
«Mio padre era ingegnere civile, lavorava per l’Edison. Avevo genitori fantasiosi: suonavano la fisarmonica, il pianoforte, la chitarra… Era un mondo vivo e divertente».

Cambiamo scena. Veniamo in Italia.
«È appena nata mia sorella. Mia madre una mattina mi dice: “Vado a Roma perché mi sono innamorata di un altro”. “E io?”, chiesi. Lei: “Eh sì, adesso mica andiamo tutti a Roma in vacanza…”. Mi sembrò ragionevole, avevo sei anni. Il problema è che l’ho rivista dieci anni dopo. Mi hanno cresciuta due zie di 85 anni».

E suo padre dov’era?
«In Arabia Saudita per lavoro. Mi metteva su un aereo della Middle East Airlines che entrava a Beirut e da lì proseguiva per Gedda. Ero molto indipendente, da quando avevo sei anni…».

Mi faccia un esempio.
«Andavo a scuola da solo. Il tram costava 70 lire, ne davo cento e avevo il resto di trenta. Con le 10 lire facevo il sacchetto e andavo in banca, dove ne guadagnavo 50 sul cambio».

Il teatro quando arriva?
«Da adolescente. Conoscevo Valentina Fortunato, che era stata salvata da mio padre durante la guerra. Andavo a vederla con la Compagnia degli Associati, c’era anche Sergio Fantoni. Avevo 12-13 anni e una rabbia formidabile. Non fosse per il teatro, sarei diventato un delinquente».

Un po’ iracondo è rimasto. Ha più sentito Filippo Roma, l’inviato delle «Iene» che ha aggredito due volte?
«Sì, lo abbiamo buttato giù dalle scale un’altra volta», ride. «No, lo abbiamo accompagnato alla porta», lo corregge l’assistente Maria Letizia Maffei.

Neppure Roberto D’Agostino trattò bene, la volta che lo trascinò per i capelli…
«Continuava a insultarmi, non faceva ridere».

Adesso siete amici?
«Non puoi essergli amico. Però c’è rispetto».

Fermi un’immagine del periodo americano.
«Max’s Kansas City. Siamo io, Oliviero Toscani, Mick Jagger, David Bowie, Lou Reed ed Andy Warhol. Ero il protagonista di Almost Famous».

Com’era finito in quel giro?
«Grazie a Oliviero Toscani, di cui avevo fatto l’assistente a Milano: con il mio amico Andrea Ballo gli cambiavamo le pellicole. A New York mi mise a disposizione un loft alla Carnegie Hall, dentro il regno di Judi Garland».

È di quegli anni l’intervista a Steven Spielberg al quale disse di voler diventare come lui.
«Aveva 30 anni, io 20. Gli chiesi: come faccio a diventare come te? E lui: take a piece of paper, write a movie and do it (prendi un pezzo di carta, scrivi un film e giralo, ndr). Quando l’ho rivisto ai David di Donatello, mi sono avvicinato e sono scoppiato a piangere».

Ha fatto troppe cose, la costringo a scegliere. Una regia teatrale?
«Uomini e topi di Steinbeck, avevo 23 anni, al Carcano di Milano. Dovetti discutere con Erik Lindner, il più duro agente letterario d’Europa, per convincerlo del mio adattamento».

Una cinematografica?
«Ardena, primo film da regista e attore. C’è dentro tutta la storia della mia famiglia. Misero i picchetti davanti al Barberini per non fare entrare la gente. Ci ho sofferto».

Una produzione?
«Adriano Olivetti, ma anche Io sono Mia. E poi J’accuse di Polanski, e non perché abbiamo vinto il César e il Leone d’argento, ma è forse il più bel film sull’antisemitismo».

Della tv cosa tiene?
«C’eravamo tanto amati: mi sono proprio divertito. Ancora unico caso nella storia di format italiano venduto in America, prodotto da un italiano che lo ha pure condotto. Ero una star».

E com’è la vita da star?
«Bellissima. Vivevo in un attico sul Sunset Boulevard sullo stesso piano di Whoopi Goldberg, avevo l’aereo privato per le convention, un’auto a disposizione h24 e viaggiavo solo in top class in aereo, quando ancora mi facevano fumare il sigaro. Ero veramente viziato».

Un progetto per il futuro?
«Fare dell’Eliseo il primo teatro con il metaverso. Così in platea ci può stare un milione di persone. Tu spettatore scegli quello che vuoi: puoi diventare Amleto, o sederti accanto a lui».

Quando parte?
«Ci siamo quasi. Intesa Sanpaolo è un grandissimo partner: Stefano Barrese e Stefano Lucchini (nella foto a destra, ndr) sono stati due uomini di grande visione».

Scusi, ma è sicuro di voler vendere?
«È il mio paracadute. Il brand Eliseo Entertainment ha fatturato anche 56 milioni, ma il teatro ne perde quattro l’anno. Ho già più di un acquirente molto interessato».

E se non le lasceranno fare il direttore artistico, cosa farà? Se lo chiedeva pochi giorni fa Emilia Costantini sul «Corriere».
«Allora non farò più teatro in vita mia».

Sì, vabbè. Il ricordo più bello della sua esperienza in Parlamento?
«Le celebrazioni per i 150 anni della Repubblica. Sono entrato con al braccio il Tricolore del mio papà, partigiano bianco».

Ha fatto dei bei record di assenze.
«Questo è il solito populismo cretino. Se sei in missione o stai facendo altri lavori non puoi essere presente. Lo stesso capogruppo ci diceva che non serviva esserci tutti, ne bastavano 20».

Fini l’ha più sentito?
«Una volta. Non ci siamo lasciati in buona, ma ogni volta che mi hanno chiesto di lui ne ho parlato bene».

Prende la pensione da parlamentare?
«Sì, 700 euro. Ma è peggio l’altra pensione: duemila euro dall’Enpals, l’ente dei lavoratori dello spettacolo. Pensi che certi anni ho versato anche un miliardo: guadagnavo molto e ho sempre pagato le tasse. Ma non mi lamento: c’è chi ha pensioni più ridicole, con lavori più faticosi».

È del periodo parlamentare la fondazione contro la pedofilia. Perché l’ha chiusa?
«Era nata all’inizio del mio mandato politico e l’ho chiusa alla fine perché avevo fatto quello che potevo, costruito una casa di accoglienza in Sardegna, istituito la giornata nazionale della pedofilia, che rimarrà a vita il 5 maggio, data di nascita di mia figlia Eleonora».

Se pensa ai preti che la molestarono da bambino che sentimento prova?
«Di pietà e di tristezza. Ma sarebbe ingiusto dire che la pedofilia è solo clericale. Spesso nelle famiglie l’orco è il papà. Ho visto con la Polizia postale cose che non avrei mai immaginato».

Perché è indulgente con Polanski, condannato per violenza sessuale di una tredicenne?
«Questa tredicenne ne dimostrava 17 e lei stessa ha detto di non essere stata stuprata. Gli americani hanno rovinato la vita a un genio».

Ha sei figli.
«Cinque. Lei si riferisce a Michael, che ha 48 anni e fa l’avvocato: ho scoperto la sua esistenza vent’anni fa a un party a New York, me l’ha confessato una ex. Sono pentito di averlo rivelato».

Perché?
«I figli sono quelli che cresci, con i quali c’è una tensione emotiva importante. Per come vivevo in quegli anni potrei averne altri 800».

Beatrice, Eleonora e Angelica le ha avute dal primo matrimonio con Patrizia Fachini. Maddalena e Francesco Saverio da Elena Monorchio. Si sente un padre diverso, oggi?
«Spero migliore. Con le prime ero come un agente segreto: se mi chiamavano per fare le pose in un film io correvo. C’era il lavoro, poi il lavoro, poi il lavoro. Dovevo mantenere la famiglia».

Leviamoci il pensiero: ha detto anche agli ultimi che non lascerà loro nulla in eredità?
«Certo, lo sanno. Vivono in casa mia, non a casa loro. Li proteggo fino alla laurea».

Chiudiamo in bellezza: sua moglie. Quando ha capito che era «lei»?
«Durante un viaggio in barca alle bocche di Bonifacio, mare forza 7, io al timone. “Ora vomita e la scarico”, pensavo. E invece lei sparisce per un’ora sottocoperta e torna su con la pasta con la ‘nduja al dente. Una macchina da guerra».

Elvira Serra, corriere.it

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