Il terreno del biopic, si sa, è particolarmente scivoloso e gli utenti di Twitter non perdonano a Dalida, il film con Sveva Alviti trasmesso ieri su Raiuno, di non aver raccontato a fondo la vita dell’artista francese. Ecco, secondo noi, cosa non ha funzionato
Sveva Alviti, elegante e bellissima, restituisce a Dalida la malinconia che trasmettevano le sue canzoni ma, complice un doppiaggio non all’altezza, non riesce a spingersi oltre, evitando che il pubblico possa immedesimarsi appieno nel dramma di un’esistenza costellata di invidie e successi. La narrazione, per niente lineare, punta su brevi quadretti che cercano di fotografare Dalida nei momenti salienti della sua vita. Da bambina, quando veniva schernita per indossare gli occhiali; da ragazza, quando sognava di sposare il suo Lucien; da donna, quando cercava di fuggire dai paparazzi che la inseguivano.
Forse è stata proprio la voglia di «raccontare troppo» la vera pecca del film. Si sarebbe potuto scegliere di approfondire un episodio particolare, come in Jackie di Larraín, o di puntare su un unico aspetto della sua personalità, come il bisogno di dipendere da qualcuno. Invece si è preferito andare avanti e indietro nella vita di Dalida come un pendolo, senza il tempo di fermarsi un attimo per pensare, approfondire. La stessa passione per Luigi Tenco, interpretato da un ottimo Alessandro Borghi, si esaurisce in appena 8 minuti, incapaci di condurci per mano in una delle tragedie più importanti che la cantante affrontò in prima persona.
I presupposti c’erano tutti, ma la Azuelos si approccia alla materia con fare troppo prudente, quasi fermandosi alla superficie evitando di scavare nel profondo. Esattamente come avevano fatto Oliver Hirschbiegel con Diana – La storia segreta di Lady D e Oliver Dahan con Grace di Monaco. In questo Pablo Larraín avrebbe molto da insegnare, riuscendo a isolare una sfumatura del personaggio e fotografarla da tutte le angolazioni. Proprio come non è stato fatto con Dalida.
Vanity Fair